sabato 9 luglio 2011
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Ciò che avviene oggi, la formalizzazione dell’indipendenza del Sudan meridionale, è un atto dovuto nei confronti di un popolo che ha sofferto pene inaudite. Al di là degli omaggi commemorativi e della retorica di circostanza. E possono ben testimoniarlo i nostri missionari, per lunghi anni testimoni coraggiosi del calvario imposto dalla sanguinosa guerra civile a gente innocente. Celebriamo, dunque, un avvenimento importante e caratterizzato da un elemento di novità nella storia dell’Africa.Il traguardo è stato infatti raggiunto nonostante la schiera di regimi islamici che, dall’indipendenza in avanti, hanno spadroneggiato e spadroneggiano impunemente a Khartum, profondamente ostili alla separazione di un Paese forzatamente unito. E malgrado vi siano state alcune componenti significative della diplomazia africana che hanno fatto di tutto – dietro le quinte, s’intende – perché non fosse messo in discussione l’inossidabile principio dell’«intangibilità delle frontiere» post-coloniali, tanto caro ai padri dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Un assunto, a dire il vero, già messo in discussione con la secessione dell’Eritrea all’inizio degli anni 90 del secolo scorso, ma che non poche cancellerie africane volevano rimanesse un’eccezione nel contesto della geopolitica continentale. Il timore di costoro è che, prima o poi, quanto avvenuto in Sudan possa ripetersi, per una ragione o per l’altra, in Paesi turbolenti come la Repubblica Democratica del Congo o la Nigeria.Ma ha vinto la gente. La gente del Sud Sudan, quella dell’Equatoria, dell’Upper Nile e del Bahr el Ghazal, che ha chiesto e infine ottenuto questa svolta epocale, una volontà sancita dalla consultazione referendaria del gennaio scorso con l’intento di riscattare una dignità ripetutamente offesa dall’ingordigia nordista. E se da una parte è vero che gli interessi economici legati all’«oro nero» hanno rappresentato in fase negoziale l’oggetto del contenzioso tra i due contendenti, dall’altra è evidente che il popolo sudista intende ormai risolutamente spezzare le catene della propria schiavitù. Ora, però, il problema è capire se effettivamente sarà possibile vivere in pace da quelle parti, considerando che rimangono forti tensioni nello stato del Kordofan, dove – non da oggi – l’esercito nordista sta incutendo terrore alla popolazione autoctona, per non parlare della contesa contea di Abyei in cui non si è ancora votato per il referendum a seguito delle accese dispute legate al controllo del bacino petrolifero.Ecco perché occorre che tutti si assumano le loro responsabilità, non solo i sudanesi, ma anche la comunità internazionale nelle sue molteplici articolazioni. Soprattutto Stati Uniti e Cina devono imparare a giocare a carte scoperte, avendo evidenti interessi petroliferi in Sudan. D’altronde, la posta in gioco è alta: si tratta d’inventare, quasi di sana pianta, uno Stato lungo uno dei segmenti più importanti del bacino idrografico del Nilo. Delicatissima sarà poi la definizione di efficaci e trasparenti meccanismi di gestione della res publica, che possano assicurare la partecipazione della società civile. Una sfida di non poco conto per la neonata Repubblica sudsudanese, in riferimento, ad esempio, all’ancestrale riottosità tra alcuni gruppi etnici nilotici come i Denka e i Nuer. Di positivo c’è il sostegno politico che gli Stati confinanti (Uganda ed Etiopia in primis) sono pronti ad offrire nell’ambito di una cooperazione commerciale che sembra profilarsi ricca di suggestioni e speranze guardando al futuro, sia dal punto di vista energetico che alimentare.Detto questo sarebbe fuorviante pensare di concepire il nuovo assetto politico secondo una logica di netta spartizione confessionale dei territori tra il Nord musulmano e il Sud animista e cristiano. Se così fosse sarebbero davvero spacciate le minoranze religiose, come quella cattolica presente nel Nord, che fa capo al cardinal Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum. Dimenticare e lasciar mortificare queste comunità costituirebbe una grave omissione nei confronti della libertà religiosa, con conseguenze pericolose nelle relazioni tra Nord e Sud. Una responsabilità condivisa, dunque, nella consapevolezza, come scriveva Paolo VI che «la pace esige una sua psicologia, un suo spirito morale, che, prima di rivolgersi agli altri, si riflette sopra colui che vuole esercitare la pace».
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