Svolta d’Africa: dal debito allo sviluppo
domenica 23 agosto 2020

È evidente che l’effetto collaterale più insidioso e preoccupante generato dal coronavirus è la nuova e profonda crisi dell’economia globale. A pagare il prezzo più alto sono i Paesi poveri, primi fra tutti quelli africani. Basti pensare al fatto che le agenzie di rating, nel corso della pandemia, hanno declassato le economie dei mercati emergenti, molti dei quali africani. Si tratta di un fenomeno con un impatto fortemente speculativo, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti, come anche in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. Sta di fatto che dall’inizio della pandemia, Stati africani come l’Angola, il Botswana, il Camerun, la Repubblica Democratica del Congo, il Gabon, la Nigeria, il Sudafrica e lo Zambia, tanto per citarne alcuni, hanno subito il cosiddetto downgrade, con ripercussioni estremamente negative sulle rispettive economie nazionali. Il declassamento riduce, infatti, il valore delle obbligazioni sovrane come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle Banche centrali e spinge i tassi di interesse in alto. I valori delle obbligazioni sovrane risultano fortemente scontati, mentre aumentano i costi delle rate di rimborso degli interessi. Tutto ciò contribuisce a un aumento del costo del debito.

Un simile scenario, naturalmente, sta penalizzando fortemente l’economia reale a livello continentale, già alle prese con una drastica riduzione degli scambi commerciali e delle attività produttive. Peraltro, la sciagura del Covid-19 si è aggiunta pesantemente a situazioni già difficili determinate sia dai cambiamenti climatici sia dal perdurare di situazioni di conflittualità in molte regioni africane. Com’è noto, papa Francesco, all’unisono con il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, in più circostanze ha evidenziato la necessità di trovare le giuste «modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito dei Paesi poveri». Si rivela pertanto molto interessante la proposta formulata dalla rete Link 2007, che associa alcune tra le più importanti organizzazioni della società civile italiana dedite alla cooperazione internazionale per lo sviluppo e l’azione umanitaria.

Con l’aiuto di esperti della finanza per lo sviluppo del calibro di Roberto Ridolfi, questi organismi spiegano come che sia possibile e necessaria un’azione congiunta e lungimirante dei Paesi del G20, volta al più ampio condono del debito dei Paesi più poveri e più colpiti o alla sua conversione dove le condizioni lo consiglino. Una proposta, questa di Link 2007, che il governo italiano, a cui compete il prossimo anno la presidenza di turno del G20, potrebbe formulare e promuovere in quella sede. In particolare, si auspica la conversione del debito in valuta locale, un’operazione che potrebbe consentire la realizzazione di progetti sia di resilienza che di sviluppo umano e sostenibile in settori chiave e su precisi obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, anche di fronte a un eventuale rallentamento dell’aiuto pubblico allo sviluppo dei Paesi Ocse-Dac, coinvolgendo sia il settore pubblico sia quello privato. Tale indirizzo, peraltro, potrebbe in parte sopperire alla contrazione delle rimesse dall’estero, favorendo le comunità e le fasce più bisognose della popolazione, in aree sia urbane sia rurali, soprattutto in Africa. L’intento è quello d’innescare un impulso alla crescita planetaria e l’Europa in particolare, alle prese con la questione della mobilità umana dalla sponda africana, ne ricaverebbe certamente un vantaggio politico e operativo proponendo un’azione sinergica di riduzione condizionata del debito dei Paesi poveri, in favore della combinazione di investimenti sostenibili e strategici.

Questa iniziativa, in effetti, rappresenta la naturale evoluzione della decisione presa dal G20 lo scorso aprile per la sospensione del debito di settantasei Stati del Sud del mondo. Un indirizzo fondamentale per contrastare quella che il Papa chiama l’«economia che uccide» e la «la cultura dello scarto».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI