Lotta alle mafie e battaglie di legalità
venerdì 24 maggio 2019

Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio niente è stato più come prima. Niente doveva essere come prima. Ma non tutto è andato così, e non sempre. Non è un gioco di parole, è un’amara constatazione. Le terribili esplosioni, quell’enorme cratere sull’autostrada, il palazzi sventrati, il fuoco, le sirene, sono stati un drammatico pugno allo stomaco che ha svegliato l’Italia intera da torpori colpevoli, da un quieto vivere col male dentro. La strategia stragista decisa dai corleonesi ha tolto alibi, e illusioni di convivenza con le mafie. Cosa nostra mostrava a tutti il suo volto di morte uccidendo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Morti che hanno provocato un sussulto nel Paese, un ricompattarsi contro un nemico comune.

Un Paese che rischiava di sgretolare se stesso sotto i colpi rivelatori dell’inchiesta Mani Pulite, che aveva scoperchiato il calderone della corruzione politica, seppe reagire unitariamente contro la violenza mafiosa. Anche la politica ritrovò orgoglio e capacità per concrete iniziative.

Riavvolgiamo i film della memoria. La morte di Falcone e Borsellino, e poi le stragi di Roma, Firenze e Milano, spingono a realizzare finalmente le proposte dei due magistrati, dalla Procura nazionale antimafia alla Dia, dal rafforzamento dello strumento della confisca dei beni al carcere duro, il 41bis, per i mafiosi. Certo è amaro che ci siano volute quelle stragi per concretare i loro sogni. Ed è ancora più amaro riscontrare che è quasi sempre stato così. Solo l’uccisione di Pio La Torre e quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa portarono il Parlamento a uno scatto di dignità approvando la proposta Rognoni-La Torre che introduceva il reato di associazione mafiosa, il 416bis, e la confisca dei beni. Era il 1982.

Dieci anni dopo la storia si ripeteva come se il Paese, o almeno una sua parte, e le sue istituzioni, ondeggiassero tra bruschi risvegli e repentine dimenticanze. E la storia, purtroppo, non è cambiata. Le mafie, pur colpite duramente proprio grazie a quegli strumenti, almeno nella componente 'militare', sono tutt’altro che sconfitte. Anzi sono cresciute e si sono allargate, risalendo la Penisola e andando anche oltre le Alpi come aveva previsto ai primi del Novecento un prete e politico attento e sensibile come don Luigi Sturzo.

Non mettono bombe, non fanno stragi, quasi non uccidono più, anche se quando serve sono pronte a farlo. Le mafie oggi, ancor più di allora, sono nell’economia e nella politica, soprattutto nei territori, quelli di origine e quelli colonizzati. Lo fanno inquinando mercati ed enti locali, lo fanno coi soldi accumulati con le attività illecite e ripuliti in quelle legali. Lo fanno al Sud e soprattutto in un Nord che per troppo tempo ne ha negato la presenza e che in parte ancora insiste a farlo. Usano la corruzione, e gli appalti. Forze dell’ordine e magistratura, loro sì, non si sono mai distratti e utilizzando quegli strumenti 'sognati' da Falcone e Borsellino, non hanno mai abbassato la guardia. E necessario, ma non basta.

La mafia è o no al centro del dibattito e, soprattutto, dell’azione politica ma anche della riflessione e delle iniziative del mondo economico? Purtroppo no, tutt’altro. Non basta allora la memoria di questi giorni, peraltro necessaria. Non bastano arresti e sequestri. Le mafie si sconfiggono con la cultura e con la scuola, come ripeteva convintamente il 'papà' del pool di Palermo, Antonino Caponnetto. Ma bisogna investire e non poco. Le mafie si sconfiggono col lavoro, vero e pulito.

E sono per questo preoccupanti le critiche del mondo imprenditoriale, molto silente sul tema mafie, a due importanti norme come la legge sugli ecoreati e quella contro il caporalato. Quest’ultima criticata anche da ministri importanti che, come dimostrano le recenti sortite del responsabile dell’Interno, Matteo Salvini, contro il reato di abuso d’ufficio, denotano un’insofferenza ai controlli di legalità, perché rallenterebbero l’economia… Ci pensi e ripensi, il signor ministro.

Legalità, una parola che, come ripete don Luigi Ciotti, «ci hanno rubato». Chi è contro la legalità? Nessuno, a parole. Anche gli amici e complici dei mafiosi. Imprenditori, politici, liberi professionisti. Una mafia sostenibile, ma ancor più pericolosa perché inserita, come un tumore col quale si pensa di poter convivere e, magari, farci affari. Tanto non uccide. Anche per questo è un segnale preoccupante un anniversario come quello del 23 maggio vissuto tra polemiche, divisioni, scomuniche incrociate. L’unità è l’arma migliore contro le mafie, per creare anticorpi veri e duraturi. Ma un’unità sincera, nei fatti. Non basta dire di essere contro le mafie, di volerle sconfiggere. Diteci come e, per favore, realizzatelo. Altrimenti davvero il ricordo di Falcone e Borsellino, e delle tante vittime, sarebbe solo uno sterile rito.

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