Tra Bolsonaro, Lula, corruzioni e intrecci politico-giudiziari
giovedì 11 marzo 2021

Come sempre accade nella politica brasiliana non c’è niente di chiaro, di lineare. Mancano ancora diciannove mesi alle presidenziali brasiliane, ma il countdown elettorale è cominciato con una sentenza di lunedì del giudice della Corte Suprema, Edson Fachin. Il che dimostra quanto, nel Gigante del Sud, politica e magistratura siano diventate un complesso groviglio. Il giudice ha revocato in un colpo solo le quattro condanne nei confronti Luiz Inácio Lula da Silva – leader del Partido dos trabalhadores (Pt) e icona del centro-sinistra latinoamericano – e rimosso l’ostacolo che l’avrebbe tenuto fuori dai giochi, proprio come nel 2018 quando era in testa ai sondaggi e la sua esclusione aveva lasciato Jair Bolsonaro privo di avversari degni di questo nome. Fachin ha agito per ragioni procedurali: non è entrato nel merito dei verdetti, ha semplicemente definito il tribunale di Curitiba non competente ad emetterli. Al di là dell’effetto giudiziario – i dossier dovrebbero passare al vaglio della magistratura di Brasilia –, l’impatto politico è evidente.

Lula ha recuperato il diritto a candidarsi. E la conferenza stampa di ieri, nella sede del sindacato dei metallurgici di São Bernardo do Campo, sua culla politica, ha confermato la volontà di tornare sulla scena. L’ex presidente ha parlato della sua vicenda, della situazione nazionale e ha ringraziato papa Francesco per il suo magistero, definendolo il «miglior leader spirituale». La riconquista dei diritti politici di Lula, però, è ancora temporanea.

La decisione di Fachin deve essere confermata dagli altri dieci magistrati dell’Alto Tribunale. Per questo ci vorranno settimane o mesi. Nel frattempo, la Corte è chiamata a esprimersi – il dibattimento è iniziato martedì – sull’obiettività nei confronti dell’ex presidente di Sergio Moro, ex magistrato alla guida del tribunale di Curitiba, simbolo dell’inchiesta anticorruzione Lava Jato e grande accusatore del Pt e di Lula, in particolare. Formalmente le due questioni non sono legate. Il minimo comune denominatore è il medesimo. A otto anni dell’inizio del repulisti che aveva promesso a milioni di brasiliani di sradicare il 'grande male' nazionale con oltre 50 processi e centinaia di condanne illustri, è stata Lava Jato a finire sul banco degli imputati. Screditata da una serie di scandali.

Prima, nel giugno 2019, la pubblicazione da parte del sito 'The Intercept' dell’assiduo scambio di messaggi tra Moro – magistrato giudicante – e i pm dell’accusa durante le indagini. Poi, la conferma delle comunicazioni costanti tra le parti, lo scorso febbraio e l’avvio dell’indagine della Corte Suprema per possibile violazione del principio di imparzialità da parte dell’ex magistrato. Nel mezzo, la decisione di quest’ultimo di diventare ministro della Giustizia del governo Bolsonaro, salvo poi dare le dimissioni l’anno scorso. In questa trama intricata di accuse e contraccuse, il 'caso Lula' ha finito per aprire un parallelo 'caso Moro'.

Anzi, le due vicende sono andate avviluppandosi sempre più in una matassa politico-giudiziaria difficile da sciogliere. Inquisitore e inquisito si scambiano le parti a fasi alterne e a seconda dell’orientamento degli interlocutori. A poco più di un mese dallo scioglimento definitivo di Lava Jato e del pool di Curitiba è, però, possibile tracciare un piccolo bilancio dell’esperienza che ha marcato a fuoco l’ultimo decennio brasiliano. L’indagine ha avuto il coraggio di 'processare' il sistema di favori tra amministratori d’ogni schieramento e imprenditori, alimentato dall’estrema frammentazione dello spettro politico che costringe ogni governo a un’estenuante negoziazione del sostegno parlamentare.

Ben presto, la mediazione legittima è diventata mero scambio di mazzette e influenze. Pratica trasversale ai differenti partiti che grava come un macigno sulla qualità delle democrazia brasiliana. Lava Jato avrebbe, dunque, potuto rappresentare un’opportunità di rigenerazione del sistema se media, leader, reti sociali e – forse – gli stessi protagonisti non l’avessero utilizzata come un’arma contro i rivali. Al contrario, ha finito per diventare strumento di delegittimazione della politica in quanto tale, accelerando il processo di disgregazione del tessuto democratico.

Le conseguenze, ora più che mai, sono sotto gli occhi di tutti. La pandemia – 'non gestita' se non a colpi di anti-politica – è lo specchio quantomai tragico, della crisi in corso. In questo scenario, le elezioni dell’anno prossimo, possono diventare un’ulteriore frattura. O aprire un percorso di ricomposizione. Un punto su cui – al di là del triangolo Lula-Moro-Bolsonaro – i candidati dovrebbero riflettere. Tutti.

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