Una imprenditoria non profit per combattere le malattie rare
giovedì 1 giugno 2023

Per quanto delle malattie rare si parli molto, si fa ancora meno. Tutti i cittadini hanno diritto alla salute, afferma giustamente la Costituzione, ma ciò non è vero. Per usare un paragone calcistico, esistono i cittadini di seria A, che hanno tutto ciò di cui hanno bisogno in modo molto rapido, perché hanno risorse economiche per pagare l’intramoenia, e che possono usufruire di molti farmaci quando ne hanno bisogno, perché affetti dalle malattie più comuni, quelle che colpiscono una larga percentuale della popolazione. Ci sono, poi, i cittadini di serie B, quelli appartenenti a una bassa classe socio-economica, che sono svantaggiati perché, pur potendo teoricamente usufruire di tutti i trattamenti e anche di tutti i farmaci disponibili, non avendo risorse devono aspettare lunghe liste d’attesa, con il risultato che le cure arrivano spesso fuori tempo massimo. Infine ci sono i cittadini di serie C, i più sfortunati, perché indipendentemente dalle risorse economiche di cui dispongono o da altri fattori non hanno nessuno che si occupi dei loro problemi di salute. Sono i cittadini affetti da malattie rare, che, in Italia, sono un paio di milioni.

Sono definite malattie rare quelle che hanno meno di una persona ammalata per ogni 2.000 abitanti. Si calcola che si tratti di circa 7.000 malattie rare, che nel 70% dei casi avvengono nei bambini. Occorre ricordare che si tratta di malattie che aumenteranno di numero perché le moderne tecnologie mostrano sempre di più che anche le malattie comuni sono composte da molti sottotipi con caratteristiche diverse. Questo spiega anche perché i farmaci per un determinato tipo di malattia, in certe occasioni, risultino inefficaci.

È vero che vi sono progetti europei che sostengono la ricerca di malattie rare. Purtroppo sono di relativamente breve durata, bassa consistenza economica, e di conseguenza possono difficilmente raggiungere lo scopo. E quando lo raggiungono il brevetto degli eventuali risultati spesso viene venduto all’industria.

Questi cittadini di terza classe risultano, inoltre, doppiamente penalizzati, dato che vent’anni di sviluppo di farmaci per le malattie rare hanno prodotto solo circa 200 farmaci orfani (alcuni, peraltro, di dubbia utilità), di cui il 40% per tumori rari, una via per ottenere una più rapida approvazione nel far estendere poi il loro impiego a tumori più comuni.

Perché non c’è speranza? La risposta è ovvia: se le malattie sono rare, spesso 100-1.000 pazienti per ogni malattia, è chiaro che non ci sia alcun interesse economico per le industrie farmaceutiche a sviluppare farmaci. Il costo per il loro sviluppo risulta troppo alto e gli ammalati sono troppo pochi per ottenere i sostanziosi profitti che si guadagnano sviluppando farmaci per le malattie più comuni. Va riconosciuto che, qualche volta, si può avere lo sviluppo di qualche farmaco, ma quasi sempre solo perché si tratta di farmaci già usati per altre malattie, o per avere un’attestazione di interesse per la salute dei più sfortunati. I prezzi, quando i farmaci arrivano, sono molto alti, considerato che il Servizio sanitario nazionale spende 1,5 miliardi di euro (rispetto alla spesa totale di 22,3 miliardi di euro). È quindi inutile, se le condizioni di sistema non cambiano, che gli sfortunati cittadini di serie C attendano o si illudano che, prima o poi, qualcosa arriverà.

Occorre dunque ricercare nuove vie. Ad esempio, promuovendo una imprenditoria rigorosamente non profit per farmaci orfani. Non profit significa che il prezzo non sarà caricato dei costi dell’acquisto di un brevetto e dell’atteso profitto da parte dell’industria, ma rappresenterà solo i costi effettivi sostenuti per la sua realizzazione. Sarebbe utile poter dare qualche esempio di questa imprenditoria mettendo insieme chimici, biologi, biochimici, farmacologi e clinici che si dedichino a tempo pieno a questo tipo di obiettivo. Certo occorrerebbe trovare le risorse per almeno 10 anni, al fine di poter valutare un progetto di questo genere. Ci vogliono, per un gruppo iniziale, probabilmente intorno ai 50 milioni di euro all’anno. È possibile che non si possa trovare una banca importante o un gruppo industriale multinazionale che voglia sostenere questa nobile iniziativa, rappresentando un esempio che possa essere seguito da altri e dal nostro governo, o dall’Unione Europea? Vogliamo provarci?

Fondatore e Presidente Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs

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