Un solo tavolo: il Parlamento
mercoledì 10 maggio 2023

Il 2 giugno la nostra Repubblica compirà 77 anni. A oggi, cominciando a contare dal luglio del 1946 (secondo governo De Gasperi, il primo dell’era repubblicana), l’Italia ha collezionato ben 67 esecutivi. Da noi la durata media di un governo è di 14 mesi, con tutto il peso (negativo) che questo può avere sui rapporti con gli altri partner dell’Unione Europea, sulle relazioni internazionali, sulla continuità della politica interna. Questo per dire che è innegabile la necessità di un sistema che dia maggiore stabilità al Paese. Non lo scopre certo l’attuale maggioranza, visti i precedenti tentativi di modifica della Costituzione nella parte che riguarda la forma di governo e perfino la forma di Stato, dalla bicamerale Bozzi del 1983 alla riforma Renzi del 2016, passando per la commissione D’Alema del 1997. Tutti però falliti, in un modo o nell’altro.

L’unico cambiamento sostanziale di rilievo, ovvero la riforma del Titolo V della Costituzione (quello sulle Regioni, le Province e i Comuni), fu approvato dalla sola maggioranza di centrosinistra e poi confermato dal referendum costituzionale del 2001. Oggi tutti riconoscono i limiti e i problemi di attuazione di quell’intervento sulla Carta, un particolare che dovrebbe far suonare un campanello d’allarme a Palazzo Chigi, dove ieri si sono tenuti gli incontri tra il governo e le forze di opposizione per cercare un difficile, almeno a giudicare dai primi esiti, percorso condiviso sulle riforme.

Non si tratta di accordarsi sulle “regole del gioco”, perché la forma di governo non è un gioco: è un elemento determinante per gli equilibri istituzionali e, quindi, per il grado di democrazia effettiva di uno Stato. Ecco perché non bisogna avere fretta e, soprattutto, non bisogna forzare la mano. Quando la presidente del Consiglio dice che ha avuto mandato dagli elettori, dimentica che la Costituzione non è soltanto degli elettori che votano per l’attuale maggioranza di destracentro, ma di tutti gli italiani. Tanto meno è un gioco da tavolo: non può bastare una giornata al tavolo con i partiti che non sostengono il governo per decidere di “fare da soli”. Fare che cosa, poi? Rischiare la miscela tra autonomia regionale differenziata, cara alla Lega, e l’elezione diretta del presidente della Repubblica o del Consiglio, sogno politico della destra nazionale fin dai tempi di Giorgio Almirante? Un cocktail pieno d’incognite per il nostro Paese, con la sua storia e le sue caratteristiche.

Quando si pensa al presidenzialismo, per altro in una cornice federale, il riferimento principale sono gli Stati Uniti, ma non si può sorvolare sul fatto che quella democrazia nacque da una rivoluzione liberale e non dalle macerie prodotte dalla dittatura fascista, come la nostra. Quando si dice semipresidenzialismo, il pensiero va invece alla Francia, dove però la Quinta Repubblica fu tenuta a battesimo dal capo della destra che guidò la Resistenza al nazismo, Charles De Gaulle, e dove la sinistra maggioritaria è stata per anni quella non comunista del Partito socialista rifondato a Epinay nel 1971.

Molto differenti e lungimiranti, non a caso, furono le scelte dei nostri costituenti: centralità del Parlamento, presidente del Consiglio primus inter pares e ruolo di garanzia del capo dello Stato. Un sistema che ci ha garantito comunque decenni di democrazia, pur con le ombre prodotte dalle «gravi deviazioni» ricordate giusto ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Certo, dal 1946 i tempi sono cambiati e abbiamo premesso che la governabilità non è un’eccellenza del Made in Italy. Ma attenzione: i tempi sono cambiati per tutti e purtroppo è la stessa democrazia a essere in crisi un po’ ovunque, con l’ascesa di populismi e nazionalismi di vario tipo. Il sistema americano mostra le sue crepe da ben prima del terribile assalto a Capitol Hill di due anni fa. Quello francese non gode di buona salute. Il Regno Unito, patria del premierato (senza elezione diretta), è in difficoltà. La formula perfetta, dunque, non c’è. Dovrebbe esserci sempre, invece, la pazienza istituzionale di migliorare ciò che si può, preservando allo stesso tempo i giusti contrappesi tra poteri dello Stato. E magari riaffermare la centralità del Parlamento, stabilendo lì la sede per un confronto schietto tra tutte le ipotesi e le forze in campo.

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