Un patto sulle riforme contro la deriva estremista?
venerdì 10 marzo 2023

Lo scorso primo novembre Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni israeliane (ri)guadagnandosi i consensi che non gli sono mai mancati negli ultimi quindici anni di potere. Neanche durante i 12 mesi di esilio politico sotto il governo Bennett-Lapid. Una parte del Paese è sempre rimasta solidamente dalla sua. E su questa base Bibi ha saputo costruire le alleanze più impensabili. Compresa l’attuale. Ci ha lavorato febbrilmente, con la determinazione di chi ha tutto, o quasi, da perdere – tre processi lo attendono, e tenere le leve del comando è l’unico modo per indirizzare il suo destino – e ha finito per produrre l’esecutivo più a destra (e controverso) della storia del Paese.

Consumate tutte le alleanze possibili nelle formule di chimica politica che Israele ha sperimentato dal 2019 a oggi, Bibi si è ritrovato a corteggiare due partner estremamente scomodi: Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Leader dal passato discutibile, esprimono gli interessi degli ebrei radicali e nazionalisti che vivono negli insediamenti in Cisgiordania. Quel “partito dei coloni” che ha sempre avuto peso e rappresentanza in Israele, chiunque fosse al governo, ma che per anni Netanyahu ha sapientemente tenuto sotto l’ombrello del Likud. Ora i rapporti di forza sono cambiati: è fragile Bibi, sono più forti i settlers, irrobustiti dai numeri di una popolazione che cresce a ritmo molto più veloce di quella laica (in gennaio hanno toccato quota 502.991 – escludendo i 220mila di Gerusalemme Est – con un aumento del 2,5% in 12 mesi e del 16% negli ultimi 5 anni), e pronti a fare da sé.

Netanyahu se li è portati al governo (o forse il contrario) e li deve accontentare. In uno scambio sfacciatamente evidente, tutto giocato sulla riforma giudiziaria: dacci ciò che vogliamo – espansione e mano libera nelle aree a presenza araba, gestione della sicurezza, la pena di morte per i terroristi palestinesi, la supervisione dell’ebraicità dello Stato, la limitazione dei diritti civili, solo per cominciare – e il tuo governo avrà il controllo sui giudici che giudicheranno (anche) te.

La rivolta di Huwara – la città nel governatorato di Nablus dove è esplosa la violenza degli ultrà ebrei dopo il brutale assassinio, per mano di un palestinese, di due giovani fratelli israeliani – è stata l’ultima, ma solo in ordine di tempo, rappresentazione dell’impunità con cui le frange estremiste dei coloni ritengono di poter agire in Cisgiordiana. E, insieme, l’attestato di abdicazione di una dirigenza palestinese molto più interessata a conservare l’utile (per i suoi affari) status quo che a tutelare gli interessi della popolazione araba: una maggioranza silenziosa cui l’Anp si ostina a negare tutto, compreso il diritto di votare, aprendo varchi spaventosi all’estremismo terrorista.

Tanti israeliani scendono in piazza da nove settimane per protestare. Netanyahu li ha liquidati come «anarchici». Ma non sarà così facile maneggiare il malcontento dell’apparato più importante e rispettato del Paese: le Forze armate. I vertici dell’Esercito e dell’Aeronautica temono che la crisi possa intaccare capacità operative e coesione interna dei militari, e hanno lanciato segnali inequivocabili. Le cose non vanno meglio con l’alleato americano. Quando due mesi fa l’ambasciatore in Israele Thomas Nides ha rilevato i rischi che la riforma comporta per i valori condivisi, la risposta del ministro per gli Affari della diaspora Amichai Chikli è stata illuminante: «Si faccia gli affari suoi». Il 13 marzo Smotrich dovrebbe fare la sua prima visita a Washington come ministro delle Finanze. Ma sull’evento è calato un gelo imbarazzato. Mentre l’ebraismo statunitense (per la maggioranza reform o conservative) osserva con preoccupazione le manovre di irrigidimento del rabbinato ortodosso di Gerusalemme.

Netanyahu si sforza di mantenere un profilo basso. Si fa vedere poco. Si dibatte tra proteste e pretese. Nel Paese si fa largo l’idea che forse conviene concedergli ciò che vuole – un paracadute giudiziario – pur di mettere fine a questa deriva. Il presidente Isaac Herzog, che da settimane invoca il dialogo, ha detto che un compromesso è possibile e vicino. L’opposizione, guidata con intelligenza e senso dello Stato da Yair Lapid e Benny Gantz, si è messa all’ascolto. Forse Bibi, impigliato com’è nella tela che si è costruito da solo, finirà per pensarci su. Tirando fuori dal cilindro il suo ultimo coniglio. Stavolta senza artigli.

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