Un patto civile contro il jihadismo
sabato 31 marzo 2018

Puglia, Piemonte, Lazio, Campania. Il fronte del terrorismo jihadista sembra essersi rimesso pericolosamente in moto per il nostro Paese, aprendo 'fronti' lungo tutta la Penisola. In realtà, non si era mai fermato. La sconfitta in Medio Oriente del califfato di Daesh, tuttavia, ha riacutizzato il cosiddetto jihadismo 'di ritorno'.

Un fenomeno del resto ampiamente previsto, ma che porta con sé pericoli più complessi di quanto non appaia a prima vista. Perché non si tratta solo di combattenti di Daesh (o altre formazioni jihadiste) che rientrano dalle zone di combattimento, diffondendo come un virus la loro ideologia violenta.

Con la fine del tentativo territoriale, infatti, riprende enfasi l’idea di colpire soprattutto in Occidente, attivando cittadini europei o radicati da moltissimi anni nelle nostre città. È quanto da tempo fronteggiamo, è quanto dobbiamo aspettarci in misura crescente nei prossimi anni anche in Italia. Ma queste operazioni contro gli attivisti del terrore ci forniscono anche altre indicazioni, che sarebbe imprudente non voler scorgere.

Il primo segnale è che il sistema di prevenzione allestito dai nostri sistemi di sicurezza continua a lavorare con grande efficienza. Ancora una volta, si è intervenuti prima della 'catastrofe', e non ci si è fatti cogliere di sorpresa. È quindi giusto dare merito alle donne e agli uomini che da anni lavorano per mettere in sicurezza il nostro Paese, dato che hanno fatto più e meglio di altri teatri europei.

Ciò non significa che l’Italia si possa cullare in un velleitario senso di invulnerabilità. Che non esiste e non può essere garantito da alcuno. Per una volta, però, possiamo essere legittimamente orgogliosi di quanto stiamo facendo. La seconda indicazione, che preoccupa sia per il dato in sé sia per l’ignavia del nostro sistema politico, è il rischio rappresentato dai cosiddetti 'sistemi binari' di istruzione.

La carenza di accordi formali con le comunità islamiche, la lotta serrata contro ogni tentativo di costruire moschee regolari, il vuoto – riempito spesso solo dalla buona volontà dei singoli dirigenti scolastici o professori – di preparazione sull’islam e sulla civiltà musulmana, offrono praterie sterminate all’azione di improvvisati 'insegnanti' della dottrina islamica, privi di ogni controllo da parte dello Stato, di predicatori invitati nell’anarchia più totale da parte di associazioni e gruppi islamici. La diffusione della predicazione salafita, i cui gruppi sono influenti anche nel nostro Paese e godono di grandi finanziamenti dalle monarchie del Golfo, viene affrontata generalmente dal lato delle sicurezza. Ossia, si interviene – con espulsioni e arresti – quando si hanno prove di incitamento all’odio e alla violenza.

Per quanto indispensabile, tuttavia, il lato preventivo e repressivo non può essere lo strumento principale. È assolutamente evidente che l’islam, sia pure in posizione nettamente minoritaria, si stia radicando in Italia, come del resto in tutta Europa. Ci sono motivazioni economiche, storiche, culturali e demografiche abbondantemente evidenziate. Tante persone di fede musulmana sono qui e lo sono per restare.

E i musulmani hanno tutto il diritto, come ogni altro fedele, di avere luoghi di culto e di ricevere un’istruzione sui propri precetti religiosi. La strada propagandistica ed elettoralmente vantaggiosa, di parlare per slogan e proclami retorici non porta da nessuna parte. L’unica via realistica è quella della trasparenza e della regolamentazione di questo processo.

Per farlo non si può e non si deve prescindere dalle comunità islamiche e da un processo di istituzionalizzazione che trasformi l’«islam in Italia» in un «islam italiano». Con un’adesione salda al 'patto costituzionale' che, civilmente, unisce tutti gli italiani. Con diritti certi, ma anche con doveri precisi. Primo fra tutti l’eliminazione di quel sottobosco di finti teologi e esperti di sharia che avvelenano i pozzi della convivenza e creano pericoli a tutti noi. Senza distinzione alcuna di fede.

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