mercoledì 19 giugno 2013
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​Proprio nel giorno in cui le forze dell’Isaf cedono alle forze di polizia afghana la responsabilità della sicurezza su tutto il territorio nazionale, è stata diffusa ufficialmente la notizia che – con il beneplacito della Casa Bianca – emissari del governo del presidente Kharzai voleranno a Doha per incontrare una delegazione dei "nuovi taleban", che proprio nella capitale del Qatar hanno appena aperto un ufficio di rappresentanza. Domani gli incontri proseguiranno con l’intervento di alcuni inviati americani. Si tratta dell’annuncio di una possibile svolta, decisiva per giungere a quella pacificazione politica di Paese che da molti decenni è sconvolto da interventi militari esterni, rivoluzioni e guerre civili. Sono anni che si parla della necessità di coinvolgere gli eredi dei sedicenti "studenti di teologia" nelle trattative che dovrebbero consentire a questo affascinante e sfortunatissimo Paese di lasciarsi alle spalle oltre 30 anni di guerre. Eppure, molte sono le perplessità e le preoccupazioni circa le caratteristiche che il nuovo Afghanistan potrebbe assumere. A iniziare dai timori che la condizione femminile possa tornare allo stato di barbarie oscurantista che toccò i suoi picchi negativi proprio durante la breve era del dominio del mullah Omar. Su questo e sull’intero impianto dei diritti umani e civili bisogna essere franchi. La Costituzione del 2004 che i taleban saranno chiamati ad accettare non ha mai rappresentato uno scudo efficace. Il rapporto tra legge fondamentale e sharia è stato lasciato volutamente ambiguo, la legislazione ordinaria ha ridotto ulteriormente la protezione di molti diritti, e la stessa giurisprudenza (nelle mani di un corpo giudiziario ultra conservatore) ha fatto il resto.

D’altronde, è la società stessa che è profondamente reazionaria, con la struttura tribale, unita a quella della proprietà terriera, che ha sempre fatto delle donne e del loro corpo una proprietà della famiglia patriarcale allargata. Su questo, lo zelo neo-integralista dei taleban ha semplicemente collocato un moltiplicatore. Assai più significativi politicamente sono gli altri impegni chiesti ai nemici dell’attuale governo: la rottura dei rapporti con al-Qaeda e la fine delle ostilità. E su questo si gioca la partita affinché le trattative di Doha non siano la riproposizione dei colloqui di Parigi che consegnarono il Vietnam del Sud al Viet Minh e alle autorità di Hanoi, all’inizio degli anni 70. Significativamente, questa volta l’ufficio di rappresentanza dei taleban è Doha e non a Peshawar, in Qatar e non in Pakistan, quasi a rendere più evidente lo spostamento del loro polo d’attrazione e più plausibile la rottura dei rapporti coi qaedisti. Almeno due caveat devono essere rammentati, in tal senso. Il primo riguarda il rischio di un eccesso di "pashtunizzazione" del nuovo Aghanistan: Karzhai è pashtun, i taleban sono pashtun. Non è detto che le minoranze tagika, azare e uzbeka si sentano tutelate e non discriminate da questa evoluzione. E in Afghanistan la reazione alla percezione di minaccia sta nel ricorso alle armi. In secondo luogo, lo spostamento in Qatar del baricentro talebano potrebbe accentuare a sensazione di accerchiamento iraniano, già esacerbato dai fatti siriani e libanesi. E Teheran potrebbe reagire soffiando sul fuoco, a partire dalla regione di Herat (cioè dal settore dove si trovano le truppe italiane) in cui, da sempre, esercita un’importante influenza. Potremmo quindi assistere a un paradosso: un calo della conflittualità nell’Helmand, nel Sud Est e nella stessa zona di Farah (sotto nostra competenza) e un aumento degli episodi di insorgenza nella provincia di Herat. Prepariamoci e rafforziamo la vigilanza. Un’ultima, doverosa considerazione sulla questione della presunta "inutilità" del sacrificio di tanti nostri soldati di fronte al raggiungimento di un obiettivo inferiore ad alcune alte aspettative: trasformare la società afghana e il suo sistema politico. I soldati vanno, agiscono e muoiono dove sono comandati: l’onore e il rispetto che si guadagnano per quello che fanno non ha nulla a che spartire con la realizzabilità degli obiettivi politici (talvolta irrealistici) loro assegnati. Detto questo, è opportuno ricordare che i nostri soldati sono stati schierati (e in 53 hanno lasciato la vita) in Afghanistan per sostenere le legittime autorità, e non per trasformare i costumi della società o per verificare la tenuta dei processi democratici (sebbene abbiano svolto anche una notevole azione umanitaria). E questo faranno fino all’ultimo giorno del loro impiego.

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