venerdì 30 maggio 2014
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Con 23 milioni di consensi, pari al 96,9% dei votanti, l’ex generale Abdel Fatal al-Sisi è il nuovo presidente d’Egitto. La previsione della vigilia ha confermato un voto plebiscitario che ha lasciato all’unico candidato rivale, il laico filonasseriano Hamdine Sabbahi il 3,1% dei suffragi, poco più di 750 mila voti. Nessuna sorpresa: l’Egitto uscito da due rivoluzioni sfociate in un caos sanguinoso e inconcludente chiedeva soprattutto stabilità e fermezza. E nessuno meglio di quell’uomo con le stellette, paterno ma severo al punto giusto, conciliante ma inflessibile nei confronti della sovversione jihadista poteva incarnare il profilo umano e politico che la grande massa degli egiziani moderati reclamava. Certo, sui 54 milioni di aventi diritto solo il 44, forse il 47% (i dati ufficiali si avranno solo settimana prossima) si è recato alle urne nonostante si fosse deciso di prolungare a tre giorni le operazioni di voto nella speranza di mandare ai seggi il maggior numero possibile di elettori, e questo al neopresidente ha causato qualche dispiacere e qualche pizzico di credibilità in meno. L’affermazione di al-Sisi rimane tuttavia al di sopra di ogni contestazione. Con l’ex generale si congratula la folta nomenklatura sopravvissuta al lungo principato di Hosni Mubarak e soprattutto l’esercito, che nei suoi ranghi più elevati detiene e controlla posizioni e rendite di potere che ne garantiscono la stabilità e la longevità. Applaude anche la non piccola porzione di middle class – in particolare quella che vive nelle metropoli (non soltanto Il Cairo, anche Assuan, Alessandria, Port Said) – che commercia, guida piccole imprese, lavora nell’amministrazione pubblica, nella scuola, nell’università: la fine delle turbolenze generate dall’anno di governo a guida Morsi è esattamente ciò che i milioni di egiziani proiettati verso un benessere che da tempo vedevano scivolare verso il fantasma della povertà domandavano al potere politico.Dodici mesi di scellerata conduzione all’insegna dell’inettitudine, della sordità sociale, del privilegio accordato ai correligionari, hanno ricacciato i Fratelli Musulmani e i loro alleati della Jama’a al-Islamiyya nel sottoscala della società e i loro leader dentro le celle di uno Stato che li ha dichiarati fuorilegge. Inutile il boicottaggio da loro promosso nel corso della campagna elettorale: il plebiscito c’è stato comunque. Ma al-Sisi deve la sua affermazione in parte anche all’inaspettato voltafaccia dei salafiti del partito al-Nour, che hanno abbandonato il tradizionale sostegno ai Fratelli Musulmani per un plateale endorsement nei confronti del generale, indicato come «protagonista della grande rivoluzione», e soprattutto (forse con un eccesso di entusiasmo) «uomo di religione, garante degli interessi del progetto islamista salafita».Di certo il neopresidente cercherà di mostrarsi equanime sia nei confronti del mondo sunnita (maggioritario in Egitto), sia nei confronti della robusta minoranza cristiana: i copti sono almeno il 10% della popolazione e durante il governo di Morsi erano stati pesantemente discriminati e fatti segno a violenze e persecuzioni. Al-Sisi, che Mubarak definiva "astuto come un serpente", ha ben altro stile: come Mubarak, come Sadat, sa bene che la minoranza cristiana possiede energia, peso politico e anche risorse finanziarie essenziali per portare il Paese fuori dalle secche di una recessione rovinosa che ha causato miseria e un’ecatombe di posti di lavoro. Non a caso il portavoce della Chiesa cattolica egiziana Rafic Greiche si è rallegrato per il successo elettorale «perché fino a oggi al-Sisi è stato un uomo di parola. Sa che i cristiani sono una parte importante dell’Egitto e vuole difendere la convivenza religiosa».Ma c’è chi, insieme al candidato filonasseriano sconfitto, riconosce la propria irrimediabile irrilevanza: sono i Tamarrud, i giovani rivoluzionari che avevano accesso la miccia che ha portato alla destituzione del leader dei Fratelli Musulmani: «Volevamo cacciare Morsi e la celebrità ci ha travolto, di colpo ci siamo ritrovati a sostenere l’azione violenta dell’esercito e tutto ci è scappato di mano», ammette Moheb Doss, uno dei capi della rivoluzione. Come sempre accade, a prendersi il premio finale non sono mai coloro che hanno cominciato la rivolta. Ora l’Egitto volta pagina. Con molte speranze, parecchie inquietudini e il consistente sospetto che l’epoca della sconfinata libertà di espressione e di associazione diventerà presto un ricordo. Ma questo – già lo si sapeva – era il prezzo della stabilità.
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