Un’evasione due tentazioni
martedì 27 dicembre 2022

Né minimizzare né strumentalizzare.

Di fronte all’evasione di gruppo e agli incendi appiccati all’interno del “Beccaria” il giorno di Natale possono essere quelle le tentazioni principali da respingere: tanto per le istituzioni quanto per l’opinione pubblica, sia nell’immediato e sia quando esse saranno indotte a riflettere (e, le prime, a operare) a mente più fredda e con lo sguardo avanti dopo che tutti i giovani fuggiti saranno riportati nel carcere milanese un tempo definito “modello” e quando si saranno del tutto placate anche le conseguenze dell’incendio appiccato all’interno della struttura.

Non minimizzare; e non solo perché questi episodi, a quanto denunciano alcune organizzazioni sindacali degli agenti penitenziari, seguono a un crescendo di minacce anche all’interno degli istituti di detenzione che continuiamo a chiamare “minorili” ma che in realtà possono altresì ospitare degli ex-minorenni fino al compimento del venticinquesimo anno d’età. Non minimizzare a priori sulla gravità dei reati addebitati a ciascuno dei fuggitivi (così, se tra quelli contro il patrimonio vi dovessero essere delle rapine non potrebbe sempre parlarsi di bagatelle). Ma soprattutto non minimizzare sulla dimostrazione di inefficienza (se non peggio) che almeno a prima vista parrebbe da riscontrare nel funzionamento dei meccanismi di sicurezza sul posto, con lavori prolungatisi inspiegabilmente nel tempo (venti anni di cantiere aperto!) che, combinandosi con una carenza di personale di sorveglianza, avrebbero fornito una miscela di seducenti incentivi al tentativo di fuga.

E però non strumentalizzare rispolverando abusate lamentele contro il cosiddetto “buonismo” alla radice di una politica penitenziaria che sarebbe troppo corriva verso i detenuti e che invece è soltanto tesa a dare davvero attuazione alla finalità di recupero sociale che la Costituzione – ma prima ancora una coscienza civile degna di tale nome – vuole non sia dimenticata né nel momento dell’inflizione delle pene né in quello della loro esecuzione. Tantomeno, poi, strumentalizzare – quasi come se si trattasse di un dare e avere di violenze che si elidono a vicenda o delle quali, addirittura, le une giustificherebbero le altre per reazione – per far cancellare dalla memoria altri episodi inquietanti e sconvolgenti: lo stillicidio quasi quotidiano di suicidi, qualcuno anche di detenuti minorenni; e i maltrattamenti, fino alle vere e proprie torture che si sono dovute registrare in istituti penitenziari o in altri luoghi d’intervento della forza pubblica. Mele marce? Però non isolate, sebbene non sia giusto generalizzare.

In ogni caso, rendere le carceri meno disumane e immettere nella dinamica applicativa di qualsiasi pena fattori di autentico reintegro dei condannati: è un obiettivo che non ha affatto da comportare ingenui allentamenti di ragionevoli cautele a prevenzione di pericoli per l’incolumità delle persone e per la sicurezza pubblica.

Semmai, può contribuire a proteggere l’una e l’altra diminuendo l’esasperazione all’interno dei luoghi di detenzione e perciò combattendo ciò che, a cominciare dal vergognoso sovraffollamento in locali fatiscenti, favorisce la spirale delle rabbie e delle violenze. Impegno, questo, che dovrebbe essere tanto più sentito in relazione alla situazione di chi sia stato attratto dalla delinquenza in età adolescenziale. Ragazzi nei cui confronti dovrebbe, dunque, raddoppiarsi lo sforzo per una “ri-educazione” non paternalistica. Un lavoro che spesso ha da supplire anche a una mancanza pressoché totale di un’autentica, precedente, “educazione” o a un addestramento a reagire con la logica del “morte tua, vita mia” a condizioni di particolare disagio materiale e morale. Chi ha goduto di ben altro fa troppo presto a liquidare con sufficienza e fastidio queste condizioni e queste storie. Ma è un errore grave, e un tradimento dell’idea stessa del vero fare giustizia.

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