mercoledì 3 gennaio 2024
Un bene pubblico di straordinario vaore per tutti i cittadini va messo in sicurezza. Con alcune riforme attentamente calibrate. Introdurre l'educazione sanitaria a scuola.
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Chiariamo subito per non essere fraintesi che il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è un grande bene che non possiamo perdere, per noi e per chi verrà dopo di noi. Infatti non dimentichiamo che sono poche le persone che possono pagare centinaia di migliaia di euro per una chemioterapia antitumorale o pagare le spese di un trapianto cardiaco o di un intervento neurochirurgico. Detto questo non vi è dubbio che sono necessari alcuni urgenti cambiamenti per migliorare il Ssn.

Anzitutto esiste il problema del personale sanitario ospedaliero che è sottopagato rispetto alla media europea. Aumentare gli stipendi di medici e infermieri e dell’altro personale di almeno il 30% è una necessità indilazionabile per evitare il continuo esodo del personale dal Servizio pubblico. Molti vanno all’estero, altri si rivolgono al privato, altri ancora organizzano cooperative che poi offrono personale al Ssn, una situazione che aiuta a ottenere migliori retribuzioni ma che non serve all’interesse degli ammalati perché sono interventi che non permettono una continuità nella cura. La bassa retribuzione dei medici determina anche la cosiddetta intramoenia, che permette a chi può pagare di non rimanere in lunghe liste d’attesa (una piaga denunciata anche dal presidente Mattarella nel messaggio di fine anno ricordando «le difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi»), ma di ottenere con tempestività il trattamento o la diagnosi richiesta. Si tratta di una discriminazione fra ricchi e poveri che è contraria al dettame della nostra Costituzione.

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Il problema del personale riguarda in particolare il territorio, la parte del Ssn che con notevoli eccezioni si è dimostrata la più debole durante il periodo del Covid-19. Attualmente in tutta Italia sono molto affollati i Pronto soccorso perché è la sola possibilità di intervento per coloro che non trovano aiuto da parte dei medici di Medicina generale, che in Lombardia – ad esempio – hanno l’obbligo contrattuale di tenere aperto l’ambulatorio solo per 15 ore alla settimana pur avendo 1.500 cittadini da assistere. I medici del territorio vanno assunti a tempo pieno come i medici ospedalieri perché non è possibile che il Ssn debba contare su di un personale che opera sul territorio a titolo professionistico.

Infine per quanto riguarda il personale non bisogna dimenticare che i dirigenti del Ssn oggi sono spesso, con notevoli eccezioni, di derivazione politica, mentre sarebbe indispensabile decidersi a realizzare una Scuola superiore di sanità, dove i futuri dirigenti acquistino capacità manageriali, ma anche una educazione comune che privilegi i diritti degli ammalati rispetto alle prerogative della varietà di gruppi professionali che ruotano attorno al mercato della medicina.

Un secondo aspetto riguarda come organizzare la medicina territoriale. Sembra ovvio che non si può più pensare a un medico che agisca da solo come accade oggi, mentre la medicina è diventata complessa, con l’inserimento dei big-data, delle learning machines e dell’Intelligenza artificiale. È necessario che anche sul territorio, come negli ospedali, gli operatori sanitari lavorino assieme, attraverso le “case di comunità” o “della salute”, utilizzando le numerose esperienze che si sono già sviluppate in varie Regioni. Occorre, nonostante la miope opposizione dei sindacati, che a seconda del territorio 15-20 medici agiscano sotto lo stesso tetto.

Ciò non toglie la possibilità che ogni cittadino abbia la possibilità di scegliere il suo medico di fiducia, con il vantaggio, tuttavia, che, se questo non è presente ne trova altri che possono consultare la sua cartella clinica, senza dover correre al Pronto soccorso. Il gruppo di medici, essendo dipendenti a tempo pieno, assistiti da una segreteria informatizzata, ha la possibilità di tenere aperti gli ambulatori delle case di comunità per almeno 8-10 ore al giorno e per 7 giorni alla settimana. Accanto ai medici devono essere presenti infermiere/i per assicurare ad esempio la possibilità di ricucire piccole ferite. A questi si devono aggregare il pediatra di famiglia, psicoterapisti, psicologi e fisioterapisti. Il coordinamento con gli assistenti sociali può permettere una maggiore attenzione per gli ammalati a domicilio, come pure contributi importanti alle case di comunità possono essere dati dalle associazioni di volontariato, così numerose ma spesso isolate nel nostro Paese.

La presenza della telemedicina ha un doppio significato, perché da un lato può permettere agli ammalati di esprimere le loro preoccupazioni da casa senza la necessità di intasare gli ambulatori, quando come spesso accade c’è solo il bisogno di essere confortati. D’altro lato la telemedicina può servire a migliorare le relazioni fra territorio e ospedale, caratterizzate oggi da sfiducia reciproca. Si possono avere diagnosi complesse a distanza, come pure i medici delle Case di comunità possono ricevere consigli dai colleghi specialisti ospedalieri, evitando molte volte di inviare i pazienti in ospedale. Infine è possibile oggi avere apparecchi per le analisi di routine che hanno un basso costo, agiscono in modo automatico ed evitano l’intasamento dei laboratori ospedalieri, che hanno il compito di realizzare analisi più complesse.

In terzo luogo abbiamo la necessità di una grande rivoluzione culturale che riproponga al centro della medicina la prevenzione, che è in conflitto di interesse con il mercato. Il mercato della medicina, con la sua necessità di continuare a crescere, da un lato permette certamente di fare progressi ma, al tempo stesso, tende a medicalizzare la nostra società.

Le modalità sono molteplici. Ad esempio, diminuire i livelli di normalità. Se si diffonde il concetto che il colesterolo nel sangue deve essere il più basso possibile, che la glicemia debba diminuire come pure il livello di pressione arteriosa, aumenta il consumo di farmaci. Se, in accordo con la legislazione europea, non si fanno confronti fra farmaci che hanno la stessa indicazione terapeutica con lo stesso meccanismo d’azione si aumenta il mercato senza sapere quale sia il rapporto beneficio-rischio per i vari farmaci. Sarebbe infatti necessario che la legislazione stabilisse la necessità di dimostrare per ogni farmaco il “valore terapeutico aggiunto”, facendo confronti con il farmaco più utilizzato anziché – impropriamente con l’etica – con il placebo. Il mercato tende a sovrastimare i benefici evitando di far conoscere quale sia la reale efficacia di un farmaco attraverso un numero che indichi quante persone si devo trattare perché una abbia un vantaggio terapeutico. In altre parole, se trattiamo 100 persone con un farmaco che diminuisce la colesterolemia, avremo una diminuzione del colesterolo più o meno intensa in quasi tutte le persone trattate, ma solo una non avrà un infarto cardiaco. Il che vuol dire che si devono trattare 99 persone inutilmente le quali, inevitabilmente, subiranno comunque effetti collaterali. I farmaci vengono studiati generalmente nei maschi adulti, ma poi sono usati dagli anziani e dai bambini. Le donne sono particolarmente penalizzate perché la stessa malattia ha caratteristiche diverse per frequenza, sintomi ed esiti nei due sessi.

Occorre quindi una grande rivoluzione culturale, che metta al centro della medicina la prevenzione, perché la maggior parte delle malattie croniche sono evitabili attraverso l’impiego di buone abitudini di vita, che tutti conosciamo ma non attuiamo. Abbiamo oltre 3 milioni di diabetici, una malattia evitabile, il 40% dei tumori è evitabile eppure muoiono ogni anno 180.000 persone per tumore nel nostro Paese. Rivoluzione culturale significa molte cose. Significa migliorare le abitudini dei cittadini, nonché l’ambiente in cui si vive. Occorre inserire nella scuola almeno un’ora alla settimana di un insegnamento riguardante la salute, con persone formate allo scopo. Occorre sviluppare un’informazione indipendente, perché allo stato attuale tutta l’informazione ai medici e al pubblico dipende da chi vende. Occorre sviluppare una ricerca indipendente perché oggi, ad esempio, la ricerca sui farmaci.

Fondatore e presidente Istituto ricerche farmacologiche "Mario Negri" Irccs Milano


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