Nel giorno 128 della guerra, si conferma la tragica inefficienza dei missili russi, che Mosca lancia senza curarsi della loro scarsa precisione, mettendo in conto stragi di civili sotto la pioggia di ordigni lanciati dal cielo. È successo così nel villaggio di Sergiyivka, nella regione meridionale di Odessa, con un bilancio provvisorio di 21 morti, fra i quali anche due bambini, e una quarantina di feriti. I vertici militari avrebbero cambiato strategia, bombardando in modo più massiccio rispetto alla prima parte della guerra. E molte delle armi utilizzate fanno parte delle obsolete scorte sovietiche: non sempre colpiscono gli obiettivi previsti, ovvero quelli strettamente militari, provocando "danni collaterali" sempre più frequenti e insopportabili. Lo “jus in bello” prevede che i civili siano protetti il più possibile dalle operazioni militari, mentre lo “jus ad bellum” stabilisce che si possa attaccare solo in presenza di una giusta causa: sembra evidente che il Cremlino li stia violando entrambi.
Sul fronte del Donbass, le forze di terra russe hanno conquistato il villaggio di Pryvilla, a nord ovest della città contesa di Lysychansk. L’esercito ucraino, liberata l’Isola dei Serpenti nel Mar Nero e scongiurato il rischio imminente di uno sbarco a Odessa, potrebbe ora spostare truppe verso il fronte di Kherson e le regioni orientali, sfruttando anche i nuovi arsenali in arrivo da Occidente. Il presidente americano Joe Biden ha elencato gli approvvigionamenti decisi o già consegnati: "Gli alleati hanno fornito a Kiev quasi 140.000 sistemi anticarro, più di 600 carri armati, 500 sistemi di artiglieria, più di 600.000 munizioni di artiglieria e moderni sistemi di razzi a lancio multiplo. Abbiamo inoltre inviato sistemi di difesa aerea”.
In una giornata che non ha visto significativi sviluppi diplomatici dopo la chiusura del vertice Nato e le bellicose risposte di Putin, è interessante tornare a considerare il tema delle sanzioni economiche, le quali starebbero per alcuni aspetti indebolendo Mosca e per altri aspetti starebbero invece fallendo i propri obiettivi. In uno studio realizzato da Martin Chorzempa, del Peterson Institute for International Economics (Piie), emerge che le importazioni russe – le esportazioni degli altri Paesi verso la Federazione – sono in generale calo. La cosa più sorprendente è che la diminuzione dopo il 24 febbraio riguarda anche gli Stati che non hanno aderito alle misure punitive adottate da Usa e Europa per l’invasione dell’Ucraina.
La Russia è vulnerabile alle restrizioni sulle esportazioni di componenti militari, molti dei quali provengono dall'estero. Ma – scrive Chorzempa – la maggior parte dei Paesi si è rifiutata di unirsi alla coalizione guidata dagli Stati Uniti nell'applicare sanzioni e controlli sulle esportazioni, lasciando aperto un ampio mercato potenziale al quale Mosca potrebbe rivolgersi per ottenere componenti, tecnologia e valuta.
La situazione è complessa e in divenire, ma i dati sembrano indicare che le restrizioni alle esportazioni e le sanzioni stanno colpendo l'economia e le forze armate russe. Le importazioni sono diminuite in modo significativo, non solo dai Paesi della coalizione pro-Kiev, ma, sorprendentemente, anche dai Paesi che hanno rifiutato di adottare le sanzioni, in particolare Pechino. Dopo l'Unione Europea, la Cina è il Paese che ha contribuito maggiormente al calo delle importazioni russe negli ultimi mesi, nonostante la promessa del presidente Xi Jinping di una cooperazione "senza limiti". Dall'invasione, l’export verso la Russia dei Paesi che applicano sanzioni è diminuito del 60% rispetto al livello medio della seconda metà del 2021. Tuttavia, è significativo che anche l’export dei Paesi che non applicano sanzioni sia diminuito del 40%.
Le importazioni russe restano comunque significative. Lo studio del Piie suggerisce che un'azione più incisiva, come ad esempio sanzioni secondarie, che colpiscono anche i Paesi che non si adeguano all’embargo verso il Paese bersaglio delle sanzioni primarie, potrebbe rivelarsi necessaria per garantire che la tecnologia e i beni americani non vengano dirottati verso la macchina bellica russa. Inoltre, l'aumento dei prezzi dell'energia significa che, malgrado le misure decise dall’Europa, Mosca ha molti clienti per il suo petrolio e il suo gas, con un flusso di moneta che affluisce ed è disponibile per acquistare beni e servizi da chi è disposto a venderli.
Tuttavia, come ricostruito dal settimanale britannico “The Spectator”, alcuni dei più ricchi oligarchi sembrano essere riusciti a sfuggire alla morsa economica occidentale. Dmitry Mazepin – azionista di maggioranza e presidente del colosso chimico Uralchem e sponsor della Haas in Formula 1 -, Andrej Melnichenko – principale azionista del produttore di fertilizzanti EuroChem e della società di energia del carbone Suek, con un patrimonio di 20 miliardi – e Aleksej Mordasov –principale azionista e presidente di Severstal, conglomerato con interessi nel metallo, energia e miniere –hanno fatto ricorso davanti alla Corte di Giustizia dell'Ue per annullare quelle che considerano misure punitive. Ma tutti e tre hanno trovato il modo di eludere le sanzioni e di trasferire la loro ricchezza e i loro beni a un parente stretto o a un socio fidato. I sequestri e gli embarghi potrebbero quindi danneggiare solo in superficie i magnati del cerchio magico di Putin, che non a caso si riunirono con lui il 25 febbraio per studiare il modo di evitare la prevista reazione all’attacco contro Kiev.