mercoledì 26 gennaio 2022
L’intreccio tra demografia, lavoro e migrazioni sarà uno dei temi fondamentali di quest’anno e del prossimo futuro. I dati recenti in materia sono preoccupanti, ma...
Tre mosse utili per invertire declino e impoverimento

Ansa

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L’intreccio tra demografia, lavoro e migrazioni sarà uno dei temi fondamentali di quest’anno e del prossimo futuro. I dati recenti in materia sono preoccupanti, ma indicano anche, a una lettura attenta, una possibile risposta in grado di produrre progressi su tutti e tre i fronti.

Partiamo dal primo problema: mancano 233mila lavoratori in Italia; il danno per l’economia è di 21 miliardi pari all’1,2% del Pil in base all’ultimo rapporto presentato dal focus Censis-Confcooperative che evidenzia un enorme scostamento fra la richiesta di specifici profili di lavoratori e la disponibilità degli stessi almeno per alcuni settori. È un problema significativo, anche e soprattutto per gli industriali del Nord che non riescono a soddisfare tale domanda. Non è solo una questione che attiene al portafoglio delle imprese. Più lavoratori significa più Pil, più benessere, più servizi sociali e, in definitiva, meno tasse per gli italiani. Il problema evidenziato dal Censis si riscontra in molte aree industriali e non riguarda solo l’Italia. Secondo un recente studio in Germania mancano 400mila lavoratori. Questa stessa analisi prevede un drastico calo del Pil in assenza di soluzioni risolutrici che porterà a una riduzione del benessere, dei servizi e della ricchezza di tutti i cittadini tedeschi.

Il secondo dato che fa impressione è quello demografico. Al già pesante saldo negativo tra nati e morti a cui ci siamo abituati negli ultimi anni (che ha sottratto alla popolazione tra le 150 e i 200mila persone ogni dodici mesi) si aggiunge il conto della pandemia che ha portato il dato negativo nel 2020 a 335mila persone. Qualcuno potrebbe pensare che 'in meno si sta meglio'. Non è così, perché il declino demografico rende progressivamente insostenibile il sistema pensionistico man mano che ci avviciniamo al rapporto di uno a uno tra persone in età da lavoro e resto della popolazione. E tutti i settori legati ai giovani come quello scolastico sono destinati a risultare sovradimensionati e ad andare in crisi.

Maggiore consapevolezza e piccoli progressi sono arrivati, in Italia, con l’assegno unico per i figli che corregge in parte l’errore di un sistema dove ai fini fiscali non c’è quasi differenza tra il reddito di un single e il reddito equivalente di una famiglia con quattro componenti. Ma la risposta a questo tipo di politiche sul mercato del lavoro arriverà, se arriverà, non prima di 16-18 anni. E il 'se' non è di maniera: la crisi demografica ha radici più profonde nell’incapacità di molti giovani di progettare famiglie e futuro stabile. Perciò, se nell’immediato si vuol dare una risposta efficace, non resta che organizzare un razionale e lucido piano di significativo aumento dei flussi migratori programmati (un primo passo in questo senso è il decreto flussi varato a fine 2021 dal governo Draghi e pubblicato nei giorni scorsi in Gazzetta Ufficiale). Un piano che sia accompagnato da un programma di accoglienza che coinvolga Terzo settore, associazioni di volontariato e parrocchie, replicando su più vasta scala gli esperimenti dei 'corridoi umanitari' inventati e realizzati, con successo ma con piccoli numeri, nel nostro Paese. Si tratta di un aspetto essenziale e non accessorio della proposta. Modelli adottati in alcuni Stati del Nord Europa, fondati su immigrazione massiccia senza sistemi di accoglienza, come quello che garantirebbe la rete sociale e religiosa appena evocata, producono segregazione, ghetti e conflitto etnico.

Non basterebbero i disoccupati italiani, potrebbero dire alcuni, a colmare il gap? No, perché come dimostrano il mismatch e le enormi difficoltà nel reinserimento al lavoro dei percettori di Reddito di cittadinanza, le competenze dei disoccupati non si sposano con quelle richieste dai posti di lavoro vacanti, né nel breve né purtroppo nel medio periodo. Illuminante l’esempio britannico. Con la Brexit sono mancati all’appello decine di migliaia di guidatori stranieri per trasportare le merci nei negozi dell’Isola. Il premier Johnson ha deciso quindi di cambiare le regole per facilitare l’esame della patente per gli inglesi, ma non ha risolto il problema. Il motivo sembra ovvio: non ci sono abbastanza inglesi che desiderano lavorare come camionisti. Il risultato è stato la scarsezza dei beni sugli scaffali: il governo di Londra ha dovuto fare marcia indietro, ricorrendo ad autisti stranieri per risolvere la questione.

In sintesi, la nostra proposta per dare risposta parziale alle crisi demografica, del lavoro e migratoria si struttura in tre fasi: 1) individuare i fabbisogni di professionalità che non possono essere soddisfatti con le risorse presenti in Italia; 2) selezionare lavoratori stranieri disposti a emigrare che soddisfano queste professionalità e contestualmente attivare un percorso di integrazione facendo leva su reti di solidarietà sociale e strutture parrocchiali; 3) ricostruire e integrare, con il ricongiungimento, i nuclei familiari all’interno della comunità locale.

I risultati anche a breve termine potrebbero essere molto importanti. Colmato il gap sul mercato del lavoro e il danno di 21 miliardi e di oltre un punto percentuale di Pil, ridotta l’emergenza sul fronte pensionistico e scolastico, creato un circuito di accoglienza e integrazione efficiente che coinvolge in un dare-avere reciproco una parte importante della nostra popolazione.

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