Tre gravi ragioni da non tacere
giovedì 8 giugno 2023

Onore e riconoscenza al Questore di Verona, e a quanti hanno svolto con scrupolo le indagini sulla banda di poliziotti accusati di atrocità nella città scaligera. Ma la devianza di gruppo – perché di questo si tratta – all’interno delle organizzazioni di polizia e dei corpi militari è un problema universale. Nel senso che in ogni epoca e nei più diversi regimi si ripropone, come evento drammatico, replicabile e con il carico di indegnità che solo nella democrazia si ha la possibilità di conoscere. Sarebbe abbastanza semplice citare la catena di episodi, da Piacenza (quella volta riguardò i carabinieri locali) a Santa Maria Capua Vetere (sui detenuti nei primi giorni del covid). Né si è dimenticata la devianza – dall’alto e dal basso – di ventidue anni fa, nelle giornate del G8 a Genova, seguita da condanne della giustizia italiana e di quella europea.

Pochi giorni prima delle cronache di Verona, del resto, vi era stato il caso di alcuni agenti della Polizia locale milanese. Immagini scioccanti e subito il levarsi di polemiche, talvolta a vuoto. A vuoto, nel senso che si continua a eludere la questione, ovvero del rischio immanente, ovunque nel mondo, del formarsi del gruppo violento nel seno degli apparati di sicurezza. Quando tali organizzazioni scivolano nell’arcaica essenza di “istituzioni totali”, ovvero cessano di essere una funzione pubblica, vincolata a norme scritte e a valori morali: per degenerare in gruppo gregario, che assegna ai suoi membri un’identità, un’immagine di sé, un consumo di onnipotenza. L’istituzione totale vive all’insegna della violenza, capace di nutrire uomini e donne (sì, anche la componente femminile talvolta partecipa) dell’orrendo piacere del sadismo sugli indifesi.

Eppure, su questi pericoli esiste una letteratura rigorosa, che ne ricostruisce la fenomenologia e indica quali modelli di direzione e di assetto occorre seguire per prevenirne il ripetersi. Da Oltreoceano proviene quel monumento scientifico di Phil Zimbardo, noto per l’esperimento di Stanford, e per la descrizione dell’Effetto Lucifero, oltre che per mezzo secolo di capolavori di analisi. E dalla vicina (proprio a Verona!) università di Padova si sono prodotti saggi di psicologia sociale, che aiutano a capire e poi a ricavare sia modelli di formazione per le scuole di polizia, sia l’architettura della direzione degli apparati da cambiare seriamente.

Posso però testimoniare, con 25 anni di insegnamento a quadri, funzionari e dirigenti di polizia, l’attenzione – e relativi programmi formativi – che viene riservata a tutto questo nelle scuole. Tra le materie, ad esempio, vi è il Codice etico delle polizie europee, che ben si associa con gli approfondimenti sulle dimensioni psicosociali dell’agire su mandato della legge. Tutto ciò non basta, per varie ragioni, alcune interne alle amministrazioni degli apparati, altre riguardano la politica. Da un lato la prevenzione della devianza in polizia è ancora affrontata seguendo il “modello ispettivo”. A cascata, partendo dall’alto delle gerarchie, si eseguono verifiche “standard”. Ci si sforza di cogliere se vi siano segni di qualcosa “che non va”. Si passano in rassegna i risultati operativi che sono contabilizzati (arresti, investigazioni, interventi di soccorso e vigilanza ecc.). Si aprono i fascicoli di quanti, tra il personale di quel dato reparto, abbiano richiesto trasferimenti, lamentato malattie o incidenti nel lavoro.

E allora? Cosa manca? L’essenziale.

La valutazione della qualità del servizio, anzi se e come quel reparto intenda la sua mission in termini di servizio, non di mero esercizio del potere. Umanità, capacità di ascolto, perizia tecnica confermano la dignità della funzione, cioè la consapevolezza della responsabilità del potere. E qui c’è un assioma logico che deve imporsi. Scopo degli apparati di polizia è rendere accessibile ai cittadini quel bene, complesso, che è chiamato sicurezza.

Dunque, il fine è la soddisfazione del cittadino che insieme alla valutazione della comunità costituisce il metro di misura, proprio dell’essere “servizio”, di una responsabilità attiva. Ma controllare il territorio e perseguire gli autori di reati compongono una metodologia, niente altro che la metodologia. Si può fare qualità, quando in un’organizzazione vi sono delle zone d’ombra o comportamenti degenerati? La risposta è ovviamente, no. E allora è proprio da lì che conviene ripartire se, come afferma il tradizionale enunciato già degli anni Sessanta, “nello Stato democratico la polizia è al servizio del cittadino”.

La seconda ragione è, se possibile, ancora più spinosa: riguarda la terribile compagnia dell’arma in dotazione, in tutte le ore della giornata. Quando le persone sono sotto stress, attraversano conflitti interpersonali e familiari. O ancora, mentre pure su chi è militare e poliziotto agisce la subcultura del maschilismo, la psicologia della possessività dell’uomo sulla donna, la disperazione esistenziale che può impadronirsi nel corso di una vita.

Abbiamo il coraggio di dichiarare la matrice di troppe tragedie di femminicidio e di suicidio che portano alle cronache di storie di vita delle persone con la divisa. La scorsa settimana il femminicidio e suicidio di Roma, che ha fatto tornare alla memoria tragedie simili avvenute a Cisterna di Latina, a Genova, ai Castelli Romani e tanti altri. E che dire del problema dei suicidi tra il personale? Non si può dar certo torto ai sindacati di categoria che ripetono l’allarme: se tra i carabinieri la prevalenza è tra il 22 e il 18 per 100mila persone, nel resto delle forze armate il peso è di 3,5: quasi sei volte inferiore.

Ricordiamo che per la popolazione italiana di riferimento il tasso è di 9,3. Dunque, il focus riguarda le situazioni dell’operare, la vita dell’organizzazione, la perizia nel dirigere, il sostegno morale e psicologico a chi vi lavora, la qualità della relazione con i cittadini, tanto con quelli onesti quanto con chi viola la legge. Ma ecco il terzo lato della drammatica questione. Quali responsabilità ha la politica? La si può riassumere in breve: di aver tralasciato da oltre venti anni di esercitare con sapienza la funzione di indirizzo, di non aver indicato mete alte agli apparati, di averne fatto oggetto di polemiche di parte e, talvolta, di accondiscendenza verso modelli muscolari.

C’è oggi da commuoversi, e da indignarsi, se riandiamo con la memoria alla qualità della cultura che si esprimeva dal Dopoguerra agli anni Ottanta quando si trattavano temi così delicati, e se ne dava prova in Parlamento e al Governo, tra i partiti di maggioranza e tra quelli di opposizione. Una comune responsabilità che oggi non si replica, forse nemmeno sapendo, che quello di polizia è un servizio per un bene pubblico di monopolio, la sicurezza, cui si accede solo per il tramite dei servizi dello Stato.

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