giovedì 1 luglio 2010
Dentro le avversità economiche del tempo presente si manifesta una difficoltà che va affrontata dal punto di vista educativo.
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Al G20 si è detto ufficialmente quello che nel passaparola degli addetti ai lavori si mormorava da qualche settimana: gli ordini sono ripartiti, l’economia riprende. Con l’auspicio che non si tratti di entusiasmi facili e immotivati, è giunto il momento di riflettere su un versante dimenticato di questa crisi. Si manifesta ed è nata come crisi economica, ma è solo l’evidenza di una più profonda debolezza: è innanzitutto una crisi educativa. Si paragona questa alla crisi del 1929, ma non ci sono evidenze concrete: rispetto ad allora le nostre quotidiane abitudini di vita non sono, per fortuna, sensibilmente intaccate dai recenti avvenimenti. È invece di molto diminuita in larghi strati della popolazione la percezione di dover sfruttare le difficoltà del momento per trovare nuove idee, nuovi percorsi di miglioramento; si è ridotta la speranza e la voglia di cambiamento che, nel nostro Paese, più facilmente si accompagna a periodi di crisi. D’indole, se potessimo, non cambieremmo mai ed è solo al venir meno di equilibri non più procrastinabili, spesso per cause internazionali, che diamo il meglio di noi stessi. Le crisi, meglio il travaglio dell’oggi, nella loro ciclicità tipica delle società capitalistiche mature hanno sempre accompagnato in Italia l’emergere del nuovo: si pensi al periodo 1968-73, momento di grandi sconvolgimenti sociali, culturali, economici, politici, ma anche fase di messa a punto delle caratteristiche della seconda fase di sviluppo del Paese, quella del "made in Italy", dei distretti e della piccola e media impresa. Da noi il cambiamento è quasi sempre provocato dall’esterno, tollerato dall’alto e realizzato dal basso. Oggi si segnala un problema. Sembrerebbe di poter dire che proprio perché la difficoltà del momento non ha inciso (ovviamente in termini generali e diffusi) sulla persona, questa si è chiusa in difesa della propria condizione materiale. Si continua a parlare della crisi, ma si vive come se non ci fosse. Ci si lamenta della crisi, senza patirne sensibilmente le conseguenze e dunque non si cambia. La disoccupazione è tema di ricerca e dibattito, ma poi, in concreto, molti non accettano di fare – e prima, di imparare a fare – quei lavori artigianali ancora oggi molto richiesti, ma altrettanto poco desiderati. E non si risponda che a cinquant’anni è difficile riciclarsi, apprendere, adattarsi perché le badanti dell’Est dimostrano il contrario, sostenendo anche pesanti costi affettivi a noi risparmiati. Contemporaneamente a Pomigliano d’Arco, zona non certo ricca di occasioni di lavoro, occorre arrivare a un passo dal precipizio per accettare come normale ciò che in altre parti, del Paese e del mondo, lo è da sempre. E ancora: si discetta di acquisti nella grande distribuzione di molto ridotti nella quarta settimana e poi occorre constatare, in occasione del passaggio al digitale, la difficoltà di reperire televisori, specie se di gamma superiore. A fine anno saranno oltre 7 milioni gli apparecchi venduti contro i già tanti 6,5 del 2009. Laddove basta un decoder del costo di qualche decina di euro, si preferisce cambiare l’intero apparecchio. E si potrebbe continuare, con cellulari, scommesse, vacanze, animali domestici, sprechi di vario genere. Il lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto ci ha consegnato una condizione di vita molto positiva, la migliore mai vissuta per larghi strati della popolazione. Ciò è un bene, sia chiaro, ma solo se la pancia piena non finisce con lo svuotare di idee e di motivazioni la testa e il cuore. Senza passione e voglia di fare non ci sono istituzioni politiche e finanziarie, nazionali e internazionali, in grado di assicurarci il domani. E allora sarebbe molto più utile domandarci da cosa scaturisce quella passione e quella voglia di fare che avevamo, quando avevamo meno, e stiamo perdendo, oggi che abbiamo quasi tutto.
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