Tra giustizialismo e garantismo prima dare attenzione ad Abele
venerdì 28 luglio 2023

Nella campagna elettorale permanente di lotta (la scomposita opposizione) e di governo (la composita maggioranza) della politica italiana, è una buona notizia l’archiviazione, dai provvedimenti sulla giustizia del Ministro Nordio, dell’abolizione o della riforma, restrittiva, del concorso esterno in associazione mafiosa. Un’assunzione di responsabilità della Presidente Meloni di cui le va dato atto.

La lotta alla mafia ha lasciato sul terreno il meglio dei servitori dello Stato, e tanti cittadini colpevoli solo di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato. È inconcepibile che si possa mettere in dubbio uno strumento indispensabile, e rodato, alla lotta alla mafia e a quella zona grigia della società a disposizione o a servizio, o più banalmente in affari con la mafia. Che si possa credere che la si possa fare solo con gli elenchi “ufficiali” degli aderenti alle cosche, magari tramite la liturgia macabra e irreligiosa dell’affiliazione. Qualcosa che sa di una provocazione o peggio ancora di un’abdicazione dello Stato.

Bene ha fatto la Meloni, partecipando, come sempre, alle celebrazioni del sacrificio di Paolo Borsellino, a mettere da parte questo improvvido ragionamento del Ministro sul miglior garantismo che l’abolizione o la riforma restrittiva del reato assicurerebbe alla procedura penale. Ma è proprio questo il punto. Il “garantismo” di cui avrebbe bisogno la giustizia in Italia. Un Paese infelice, che da decenni si divide su giustizialismo e garantismo in un dibattito dove due errori logici e sistemici, anziché essere elisi dai principi cui dovrebbe ispirarsi una giustizia “giusta”, sommando le loro fallacie, concorrono a non concludere nulla di decente per il sistema giustizia, la cui vera riforma sarebbe far sparire, con le opportune tecnicalità giurisdizionali, questo lessico divisorio (e la sostanza ipocrita degli interessi di parte che vi è sottesa) dal dibattito e dalla politica di questo Paese.

Ma a cosa dovrebbe ispirarsi una riforma che mandi in archivio la patologia fattuale e argomentativa dell’opposizione giustizialismo- garantismo? Prenderei le mosse da una scena fondativa della nostra cultura morale e giuridica. Ed è la scena di Genesi, 4, quando il Signore chiede conto a Caino del fratello che ha ucciso, Abele: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello». E però, soggiunge, per Caino, che riconosce la sua colpa, e teme di essere ucciso ramingo a motivo di essa: « Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!», imponendo sulla sua fronte «un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».

Tralascio l’ermeneutica del brano, che segna il passaggio e il contrasto da una società pastorale ad una agricola, e l’incunabolo di un distacco dalla legge del taglione, per tenerne quello che ancora ci serve: il suo senso morale e giuridico. E che cioè la prima attenzione della giustizia divina e umana è alle ragioni di Abele, che proteggono anche le ragioni di Caino dal non subire nella vendetta di sangue il torto subito, per sua mano, da Abele. Un Caino che riconosce il suo torto, e sa di non meritare perdono. Situazione un po’ diversa, dai diffusi interpreti oggi del ruolo di Caino, che non toglie il dovere morale e giuridico di “non toccare Caino”. Epperò il primo “comandamento” per ogni operatore di giustizia è tener punto che la prima attenzione della giustizia è alle ragioni di Abele. È di queste ragioni che ci dobbiamo dar conto tra noi, a prescindere dal fatto che ci sia o no una giustizia “dopo di noi”, dopo quella che ci possiamo dare qui e ora tra noi. Perché è inutile tacerselo: potrebbe anche essere l’unica giustizia, quella qui sulla terra, che può ricevere Abele.

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