martedì 1 settembre 2009
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La vera posta in gioco non è semplicemente lo smaltimento dei rifiuti. È uno stile di vita più "essenziale", un nuovo umanesimo dell’habitat. Del produrre, del godere, e dell’educare alla qualità di entrambi. Le generazioni dell’uomo abitano la terra transitoriamente. Debbono imparare di nuovo a giudicarsi, e a lasciarsi giudicare, per ciò che impongono ai loro simili, o per ciò di cui li privano, nel loro modo di abitare la terra: dalla loro casa, al governo delle forze della natura. Giudicarsi e lasciarsi giudicare per il modo con cui lavorano (o non lavorano affatto) la terra in cui transitano. E per come la consumano. E per come educano a entrambe le cose. Vale per l’anima, per il corpo, per l’edificare, il costruire, l’apprendere e l’insegnare, per il governo della forma civile e per lo stile della testimonianza cristiana. Uno stile di vita più essenziale, comporta «una disciplina fatta di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro». Sono parole di Benedetto XVI. Le riprendono opportunamente i vescovi italiani, collocandole al centro del loro appassionato «Messaggio» per la quarta «Giornata per la salvaguardia del creato», che si celebra oggi. Il mondo non fu creato per funzionare "da solo". Il disegno creatore di Dio lo immaginò – come disponibilità di incanti e di risorse, di forze inesauribili e di fragilità delicatissime – indissolubilmente legato alla responsabile custodia di "uomo e donna". Lo "stato del mondo" rispecchia la qualità di questo legame: nel bene e nel male. Enigma della libertà di Dio, che accettò una creatura "immagine", capace persino di "fronteggiarlo", nell’uso e nella condivisione del mondo. Mistero incantevole dell’offerta di un’autonomia che ci rende protagonisti della destinazione della creatura: fino alla vita immaginata e promessa da Dio. Mistero di tremenda responsabilità, da affrontare con ogni timore e tremore. Una ragione seria, effettivamente "adulta", ci rende consapevoli del fatto che dobbiamo esercitare questa responsabilità, fronteggiando ogni giorno i danni e la delusione accumulati dal ripetuto fallimento dei nostri deliri di onnipotenza. E ci insegna a chiedere – e insegnare a chiedere, anche con parole laiche – la "grazia" di non perdere, per noi e per i nostri figli, la dignità di interlocutori del destino dell’uomo e del suo mondo. Del creato, insomma. E di farlo al cospetto di "Dio", che non è nessuno di noi. Per molti ingegnosi mitografi del nostro tempo, il posto di Dio, creatore e custode della creazione, "è vuoto". Nietzsche stesso riteneva l’evento drammaticamente inaudito. Certi futili discorsi sulla "morte di Dio" – inducono a considerarla un’opportunità migliore per l’uomo. Come si fosse liberato un posto di lavoro per i più audaci: un posto da dirigente supremo, per il quale si è aperta la competizione. È la nostra malattia mortale. Non più l’angoscia del limite, bensì il delirio di onnipotenza.Dalla comunità cristiana ci si aspetta uno scatto di umiltà e di orgoglio. L’umiltà di una più profonda meditazione sull’azzardo di Dio, che per primo non si tirò indietro dall’opera della custodia della creazione, legando indissolubilmente la destinazione del Figlio alla nostra. L’orgoglio di rendere testimonianza alla concreta possibilità di rendere più bella la terra, mostrando che è realmente possibile togliere aria al consumismo tecno-nichilistico, restituendo ossigeno all’umano desertificato. Uno stile di vita più essenziale, appunto: in tutti i sensi. Bisogna eludere astutamente, e battere collettivamente, l’ossessiva ingiunzione al godimento che ha preso il posto esatto del primo comandamento. Le chiacchiere, ormai, stanno a zero. È ora di prendere l’iniziativa.
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