giovedì 14 dicembre 2023
Il vincitore del “Nobel per l’acqua” disegna gli scenari e le strategie che riguardano le risorse idriche: «Il riscaldamento è un fatto e va combattuto subito, non fare nulla sarebbe disastroso»
Il blitz a Venezia degli attivisti di "Extinction Rebellinon" che hanno gettato in Canal Grande della fluoresceina, una sostanza innocua

Il blitz a Venezia degli attivisti di "Extinction Rebellinon" che hanno gettato in Canal Grande della fluoresceina, una sostanza innocua - Ansa

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«L’anno prossimo forse mi trasferisco negli Usa». Di tutta l’intervista con Andrea Rinaldo la prima cosa che ricorderemo a lungo è questa. Che il primo italiano ad essere insignito dello Stockholm Water Prize, il “Nobel” assegnato per gli studi sull’acqua, lascerà il nostro Paese. «Se vado negli Usa è perché laggiù il pensionamento per anzianità è incostituzionale, e non sono pronto a lasciare il mio lavoro», spiega. E non c’è nessuna acrimonia. È uno scienziato, vive di evidenze. Come quelle che hanno portato la Cop28 a trovare un accordo sulla transizione dai combustibili fossili. Rinaldo ha molto da dire su questo tema e soprattutto al “governo dell’acqua”, cui ha dedicato un recente libro edito da Marsilio. Ordinario di Costruzioni idrauliche all’Università di Padova e direttore del laboratorio di Ecoidrologia dell’École Polytechnique Fédérale de Lausanne in Svizzera, socio Linceo, presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia e di altre Accademie, tra cui i Georgofili, da anni studia come funziona la Natura attraverso le reti fluviali con il filtro dell’ecoidrologia, la scienza che studia i controlli dell’acqua sulle comunità vive (specie, popolazioni, patogeni), e i corridoi ecologici che le vie d’acqua creano. Lo studio dei corsi d’acqua può avvicinare una riconciliazione tra capitalismo e ambientalismo, sottolinea Rinaldo. «Greta Thunberg ha ragione», è la frase con cui ha iniziato il nostro colloquio.

Una volta si diceva che l’Italia era un Paese a clima temperato. Eppure, nevicava molto, pioveva molto e le estati erano torride, il che ha fatto pensare a molti che il cambiamento climatico fosse un’invenzione da scienziati. Che cosa ci deve far cambiare idea?

Chi dice che il cambiamento climatico c’è sempre stato, dice una ovvietà. Ci sono sempre state modifiche su scale storiche e geologiche. Tuttavia dev’essere chiaro a tutti che l’accelerazione dei fenomeni è recente e formidabile. Se guardiamo all’andamento di un numero enorme di indicatori (dalla popolazione urbana al consumo globale di acqua o energia, dal PIL globale alla concentrazione di gas serra e di inquinanti nell’atmosfera o nel suolo, e qualunque indicatore di alterazioni nella biosfera) hanno tutti lo stesso andamento, popolarmente chiamato “a mazza da hockey”. Vuol dire che tutti i dati, dai primi del ‘700 fino agli anni cinquanta del ‘900, hanno un andamento sostanzialmente piatto, poi una crescita si impenna, un po’ come la sagoma dell’attrezzo con cui si gioca a hockey. Questa accelerazione impone il ripensamento di stili di vita, della difesa idraulica del territorio, delle agricolture possibili e delle difficili scelte politico-economiche.

L’uomo della strada può rendersi conto di questa accelerazione?

Thomas Stocker ne ha parlato in modo emozionante alla Crutzen Lecture 2023 a Varsavia - Paul Crutzen era il chimico olandese che ha vinto il Nobel per avere contribuito alla identificazione delle cause del buco dell’ozono atmosferico - ma anche l’uomo della strada se ne può avvedere: da otto anni registriamo il record di temperature medie annuali, ogni anno si supera il valore dell’anno precedente. Quest’estate, in un certo giorno si sono registrati 17,2 gradi come media globale, poli compresi, la più alta temperature media giornaliera mai misurata direttamente sulla terra. Può bastare per rendersene conto?

Perché il fattore tempo fa la differenza?

Se la variazione di una grandezza - una variabile di stato - è proporzionale al suo valore, la crescita diventa esponenziale e i problemi diventano rapidamente enormi. Oggi vediamo i segnali di un fenomeno che in pochi decenni si sono rivelati esplosivi. I ghiacci polari si sono ridotti drammaticamente quest’anno, anche per effetto del primo anno del Niño; la contrazione è sei deviazioni standard sotto la media della loro estensione media degli ultimi vent’anni. È la rapidità del cambiamento che sgomenta.

Alcuni scienziati mettono in dubbio ciò che Lei dice. Cosa risponde?

Sostenere di non essere convinti dei danni dell’antropocene di fronte all’evidenza scientifica accumulata in questi decenni è incredibile, a mio giudizio. Le contestazioni dei negazionisti sono confutate con metodo (in particolare dai rapporti dell’IPCC) perché la scienza si mette sempre in discussione, e tutti hanno diritto di parola – ma una qualche specifica conoscenza ci vorrà e pesare le competenze non è giocare sporco, non crede?

Come spiegherebbe invece alla "casalinga di Voghera" il legame tra la risorsa idrica e il cambiamento climatico?

La prima spiegazione è quella che la casalinga di Arbasino si può dare da sola, osservando le anomalie che vede dalle finestre di casa, l’alterarsi delle stagioni, le bombe d’acqua, i fiumi in secca, i nevai che spariscono. L’effetto serra è stato scoperto 200 anni fa, ma la gente sta complessivamente meglio oggi di allora. Il consumo di acqua ed energia cresce con il benessere, ma la strada giusta non può semplicemente riportare il mondo alla povertà e alla fame. La nostalgia per la natura incontaminata è cosa da ricchi.

Che cosa succede se non facciamo nulla?

Un disastro. Se si fondono i ghiacci della Groenlandia, a Venezia non avremo un metro ma sette metri di aumento del livello medio del mare, e l’ipotesi dell’accelerazione catastrofica non ha probabilità zero. La scienza ha il dovere di comunicare la gravità degli eventi, e la politica semmai di consolare. Anche in uno scenario benevolo, oggi sappiamo che con il piú probabile aumento (da 2.1 a 3.5 gradi) della temperatura media per i prossimi 100 anni il Mose dovrà esser chiuso 260 volte all’anno alla fine del secolo. La laguna diventerà uno stagno, la città marcirà per la risalita capillare dell’acqua salata nelle fabbriche degli edifici, nessun uso marittimo significativo della laguna sarà possibile. Se non facciamo nulla perderemo tutto e Venezia sarà il simbolo delle nostre responsabilità.

Perché la politica fatica a prendere atto dei vostri dati?

L’aumento della temperatura nell’atmosfera, la febbre del pianeta, è la madre di tutti i problemi. Io credo che i dati e le conoscenze di cui disponiamo entreranno prepotentemente nelle agende politiche solo quando l’intervallo tra catastrofi scenderà sotto il ciclo delle scadenze elettorali. Fino ad allora, almeno in Paesi come il nostro, permarrà la diffidenza verso le evidenze scientifiche e l’urgenza della fondamentale programmazione di lungo termine.

L’Italia cosa sta facendo per difendersi dalle alluvioni?

Per ogni grado in più di temperatura dell’aria, l’atmosfera mediamente aumenta del 6-7% il suo contenuto di vapore acqueo. Quando quell’atmosfera incontra fronti freddi si generano precipitazioni sempre più intense: bombe d’acqua, alluvioni diffuse. Siccità prolungate sono correlate a quegli estremi. La difesa idraulica va ripensata perché il rapido cambiamento climatico modifica i parametri su cui è fondata: la probabilità di una piena bicentenaria, il valore di riferimento per la legge italiana, è cambiata quasi ovunque, e dobbiamo tenerne conto. Mi conforta invece un fatto: la cultura idraulica nel Belpaese, dai consorzi di bonifica ai dipartimenti delle università o dei centri di ricerca è straordinaria. Bisogna mobilitarla per lavorare a un piano generale di giustizia distributiva delle risorse idriche, basata veramente sul bacino idrografico (e non su competenze politiche o amministrative).

L’altra faccia della medaglia è la siccità. Come gestirla?

Gli israeliani sono maestri nella gestione delle risorse idriche, e insegnano che le agricolture possibili sono sempre commisurate alle risorse idriche complessive che cambiano, e i privilegi vanno continuamente ridiscussi. Anche noi dovremo porci il problema se mantenere certe colture e certe irrigazioni, ridiscutendo vecchi privilegi dialogando con le strutture invisibili (gli assetti giuridici e politici, le tradizioni dei luoghi, le sensibilità collettive, secondo il pensiero di Lucio Gambi).

Basterà creare nuovi invasi?

Non ci sono soluzioni adatte a ogni contesto: bisogna conoscere le condizioni locali per comprendere quali opere siano adatte a gestire periodi di carenza idrica, e magari insieme ridurre il rischio idraulico. Io credo che molte posizioni ideologiche su questi temi sono incolte, settarie o false. Anche in questo campo dobbiamo imparare da Israele, che dai primi anni ’90 ha sperimentato (e ora usa estesamente) l’immissione in acquiferi profondi di reflui urbani depurati per riciclarli nelle reti di irrigazione in agricoltura. Insieme alla desalinizzazione del minimo necessario per usi urbani potabili e alla riduzione al minimo (“goccia a goccia”) dell’uso irriguo, ha dato a Israele, il cui clima è semi-arido o arido, la capacità di esportare acqua potabile in Giordania. Credo che quel ciclo, colto e virtuoso, dovremo provarlo anche noi a breve.

Che cosa pensa del nucleare?

Non si può più dire di no per principio, mi sembra. Ma non è il mio mestiere.

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