L’unico fatto certo nella vicenda delle cosiddette 'navi dei veleni' sono i pescatori dell’area di Cetraro rimasti senza lavoro. Non perché i pesci non ci siano più in questa splendido tratto di mare calabrese, ma perché nessuno vuole più il pesce pescato in questa zona, che da secoli vive proprio di pesca. Effetto annuncio, effetto sospetti, effetto paura, effetto tempo perso. Troppo tempo. Quella che sta riempiendo pagine e pagine dei giornali in queste settimane è storia vecchia. Troppo vecchia. Storia di veleni presunti e di sicuri avvelenamenti di notizie, tra nuovevecchie rivelazioni di vecchi-nuovi collaboratori di giustizia. E tra ritrovamenti veri, come quello della nave Cunsky che secondo il boss pentito Francesco Fonti sarebbe stata affondata con la collaborazione delle cosche della ’ndrangheta per occultare centinaia di fusti contenenti rifiuti tossici e radioattivi. Una nave c’è davvero nel mare di Cetraro, anche se non è certo che sia proprio la Cunsky. Sta lì a circa cinquecento metri di profondità e, come dimostrano le foto delle telecamere subacquee, contiene in effetti molti fusti di metallo. Cosa contengono? Non si sa. Ci si basa solo sulle dichiarazioni dell’ex boss. Preziose, visto che una nave è stata finalmente trovata. Di queste 'navi a perdere' si parla, infatti, da almeno quindici anni. Se ne sono occupate prima la procura di Reggio Calabria e poi quella di Paola. E perfino i Lloyd’s, preoccupati delle troppe imbarcazioni affondate nei nostri mari, con conseguente richiesta di copertura assicurativa. Puzza di truffa, più che di veleni. Ma l’una non esclude l’altra. Per anni tanti sospetti, tante voci. Riferite spesso, purtroppo, da personaggi poco affidabili o, perlomeno, da maneggiare con molta cura. La materia dei rifiuti e, in particolare, del loro smaltimento illegale, non solo in Calabria, è stata spesso attraversata da faccendieri e loquaci millantatori. Ai quali è stata data eccessiva fiducia. E la stampa ha non poche responsabilità, tra superficialità, amnesie, scarsi approfondimenti. Lo dimostra quanto sta accadendo in questi giorni. Trovata la nave, automaticamente sarebbero stati trovati i veleni. Ma con quali prove? Che migliaia di fusti di rifiuti siano finiti in fondo al mare è più che probabile. Facile nasconderli a centinaia di metri di profondità, poco costoso, soprattutto se poi oltre al prezzo (in nero ovviamente...) dello smaltimento illegale si aggiunge l’assicurazione della nave affondata. Quindi non è da escludere che la ’ndrangheta ci abbia fatto più di un pensierino. Laddove si possono fare soldi facili la mafia è in prima fila. Certo è strano che poi a subirne le conseguenze sia l’attività della pesca che proprio a Cetraro è da sempre condizionata dalle cosche (il capo ’ndrina locale, don Ciccio Muto, è chiamato il 're del pesce'), ma spesso i ragionamenti delle mafie non sono così lineari. Basti pensare, sempre in materia di rifiuti, al disastro ambientale provocato dalle ecomafie in Campania. Insomma, pecunia non olet . Ma, lo ripetiamo, tutto questo è solo un’ipotesi. Molto probabile, ma sempre un’ipotesi. Come per un omicidio mancano la pistola fumante e anche il morto. E allora non si perda ulteriore tempo. Si recuperi uno di quei bidoni e si veda davvero cosa c’è dentro. Come ha chiesto ieri anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. La magistratura che indaga non ha abbastanza fondi? Lo faccia il governo. Non ci si accontenti dei pur bravi precari dell’Ispra che a bordo della nave Astrea stanno monitorando quella zona. In fondo non è un’impresa proibitiva. I resti del Dc9 Itavia della strage di Ustica vennero recuperati tra il 1987 e il 1991 a 3.700 metri di profondità, proprio con fondi stanziati dal governo. Tre anni fa l’allora viceministro dell’Interno Minniti (governo Prodi) assicurò che sarebbero stati trovati i fondi per le 'carrette' affondate. Ma non se ne fece nulla. E il governo attuale non ha fatto passi avanti. Così, nell’incertezza le voci girano, rimbalzano, si ingigantiscono. E la Calabria, già martoriata da tanta malamministrazione proprio in materia ambientale – è recente il rinvio a giudizio di politici regionali per lo scandalo dei depuratori non funzionanti – non merita di affondare in questi veleni. È una questione, oltre che di difesa dei posti di lavoro e dell’economia locale, di diritto alla verità. Forse basterebbe un bidone tirato su dal fondo del mare per evitare l’ennesimo bidone tirato addosso a questa regione.