Su quel legno l'umanità di Dio e ci parli la giustizia mite
martedì 14 settembre 2021

Le coincidenze fanno pensare: la sentenza della Corte di Cassazione sul Crocifisso e il fatto che la comunità credente sia chiamata in questi giorni a celebrare l’Esaltazione della Croce. Nulla accade per caso. Allorché viene emanata una sentenza da parte di un tribunale (a maggior ragione da parte della Corte di Cassazione, peraltro a sezioni unite), sorge spontanea la domanda: chi ha vinto e chi ha perso fra i soggetti del contenzioso? Da un lato sembra che non si possa usare la struttura di questa logica binaria (si/no, bianco/nero, vero/falso) di fronte a una questione così complessa come quella dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche (e direi in genere nei luoghi pubblici istituzionali), di cui nella sentenza 24414/21 della Corte Suprema, pubblicata il 9 settembre scorso. Dall’altro tale pronunciamento, soprattutto se si leggono attentamente le motivazioni, non si può semplicemente liquidare come irenico e cerchiobottista.

Ciò che risulta agli occhi di chi scrive è che a prevalere in questa occasione sia il dialogo e la tolleranza, mentre soccombe il fondamentalismo sia laicista sia pseudo-religioso. E ciò proprio a ridosso del ricordo di quanto accaduto venti anni or sono e della partecipazione sofferta a quanto sta accadendo oggi in Afghanistan. Né può sfuggire la valenza teologica e culturale della questione e della stessa sentenza. In primo luogo, mi preme sottolineare e marcare la profonda differenza che intercorre fra laicismo e laicità e fra quanti intendono espellere semplicemente ogni simbolo religioso dai luoghi pubblici e quanti intendono imporre esclusivamente l’universo simbolico della propria appartenenza religiosa in ambito pubblico.

La sentenza è particolarmente illuminante a questo proposito, rimandando, direi con orgoglio, al senso della 'laicità italiana' e alle sue peculiarità: «La laicità italiana non è 'neutralizzante': non nega la peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo» (Sentenza, 13.1). La Croce, poiché interpella tutti (anche i non credenti) rivela la sporgenza pubblica dell’evento cristico. In secondo luogo, come non si esclude l’esposizione del Crocifisso, la cui decisione è demandata alle singole comunità scolastiche, così si può prevedere la compresenza di altri simboli religiosi.

Come viene riconosciuto che il simbolo del cristianesimo esprime anche le radici culturali della nostra civiltà, esso può ben convivere con i simboli di altre religioni, in una prospettiva di sano pluralismo, di accoglienza e di inclusione (cfr. Sentenza, 13.3). Tale posizione può essere letta alla luce di quanto enunciato da papa Francesco in un famoso discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019): «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Come nella società sono chiamate a convivere civilmente appartenenze etniche, culturali e religiose diverse, così nella scuola, che è specchio ed espressione della stessa società, non essendo, l’istituzione educativa, chiamata a estraniare i giovani dal loro contesto.

Qualcuno potrebbe pensare che siamo in un regime di relativismo, mentre si tratta di pura e semplice, nonché realistica relatività, quale quella che un credente certo non relativista come Blaise Pascal esprimeva a proposito del pane eucaristico, che si confonde col pane comune, pur contenendo il corpo e il sangue del Signore Gesù. Il fatto che non si escluda la presenza di elementi simbolici nello spazio pubblico è indice della consapevolezza secondo cui l’uomo è di per sé un 'animale simbolico' e la religiosità appartiene a tale universo 'forestale simbolico' come direbbe Charles Baudelaire. Del resto, pensando alla possibile compresenza di simboli appartenenti a diverse radici credenti, si pensi all’albero della vita della cattedrale di Otranto, dove i rimandi sono ovviamente molteplici: dall’Albero della Vita posto nell’Eden, a quello rappresentato nella Cabala, come anche all’'Albero dell’estremo confine', Sidrat al-Muntaha o del settimo cielo, secondo la tradizione islamica.

Nelle motivazioni, la sentenza non manca di esporsi a proposito del simbolo stesso della Croce, allorché innanzitutto ne evidenzia il carattere propriamente e immediatamente 'religioso' ed è così che viene normalmente percepito, poiché rappresenta «per il credente il messaggio del mistero della resurrezione e della redenzione dell’uomo» ( Sentenza, 11,8). In quanto tale viene altresì riconosciuta la valenza culturale di tale simbologia, che «descrive anche uno dei tratti del patrimonio culturale italiano e rappresenta una storia e una tradizione di popolo. L’Italia ha infatti profonde radici cristiane, intrecciate con quelle umanistiche. Lo testimoniano – è stato affermato autorevolmente – «le sue città, i suoi borghi antichi, le sue cattedrali, la sua arte» ( ib.). Ma ancor più in profondità viene rilevato il richiamo ai valori umani, come la dignità, la pace, la fratellanza, l’amore verso il prossimo e la solidarietà, «condivisibili, per il loro carattere universale, anche da chi non è credente» ( ib.).

A prescindere dalla valenza eminentemente giuridica della sentenza, non possiamo non cogliere questa occasione, offerta anche alla teologia, per pensare il senso della croce. Del resto da sempre la vicenda di Gesù di Nazareth interpella non solo i suoi discepoli, ma anche i non credenti e i diversamente credenti, per la sua profonda umanità, che è, come direbbe Karl Barth, l’«umanità di Dio». Mi piace pensare che di fronte a questa umanità sofferente e crocifissa non possano esserci né vincitori, né vinti e che questa sentenza, da più parti interpretata come espressione di una 'giustizia mite', costituisca un punto di non ritorno.

Teologo, Pontificia Università Lateranense

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