giovedì 25 maggio 2017
La demagogia si è impossessata del dibattito, ma è fuorviante. Perché i tempi cambiano velocemente e la reazione di Comuni, cooperative e Terzo settore alle prese con ghetti e quartieri a rischio
Stranieri, dalle case ai nidi la realtà oltre i «talk show»
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Nell’Italia dei conflitti sociali a bassa intensità, la vera differenza si misura non nelle contrapposizioni artificiali tra italiani e stranieri, ma tra chi si mette in gioco e prova a trovare soluzioni e chi preferisce dedicarsi alla facile propaganda. Dall’universo delle case popolari fino alle graduatorie per gli asili nido, sono diversi i terreni di scontro potenziale tra popolazione autoctona e popolazione straniera. La demagogia di slogan come «padroni a casa nostra» o «prima gli italiani» si è impossessata di talk showe prime pagine, ma rischia di essere fuorviante, oltreché superata. Perché i tempi cambiano velocemente e perché, nel frattempo, la reazione di Comuni, cooperative e terzo settore alle prese con ghetti e quartieri a rischio sta dando i primi risultati, riuscendo a disinnescare le tensioni latenti.

Ciò non significa che il nostro Paese sia esente, soprattutto nelle sue periferie, da tensioni e divisioni già deflagrate nel resto d’Europa, come raccontano le vicende di Stati come Francia e Inghilterra. Vuol dire però che esistono già piccoli anticorpi che finora hanno retto, mentre altri se ne stanno sviluppando: si pensi ad esempio al modello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che negli ultimi mesi ha visto l’ingresso di altri 152 Comuni, per un totale di 2.850. «Al netto di polemiche alimentate strumentalmente – conferma Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà Confcooperative – non va sottovalutata la componente di forte disagio sociale. Mentre si cerca artatamente di creare la minaccia dello straniero che ruba la casa o il lavoro, mentre si moltiplicano le leggende metropolitane sulla presunta concorrenza sleale nei nidi e nelle materne, ci dimentichiamo di alcuni fatti. Primo: non c’è alcun richiedente asilo che abbia diritto a una casa popolare, ad esempio. Secondo: sta scendendo sempre più rapidamente il numero dei bambini stranieri nelle scuole dell’infanzia. Molti figli di migranti arrivano cioè in prima elementare senza aver frequentato i luoghi di socializzazione tradizionali e senza aver preso dimestichezza con la lingua».

Sul sistema di welfare locale, dunque, si sta combattendo una battaglia molto rischiosa, come dimostrano anche le intimidazioni rivolte alle prime cittadine lombarde che, da Sesto San Giovanni a Cinisello Balsamo, hanno firmato un protocollo per l’accoglienza diffusa dei profughi. Ma se non si mette a fuoco quale deve essere l’obiettivo delle istituzioni e del territorio e ci si concentra su altro, si finisce soltanto per perdere tempo e per dare risposte sbagliate. «Per cancellare l’incubo delle enclave, vanno costruiti percorsi di accompagnamento, con alleanze obbligate tra pubblico e terzo settore» continua Guerini. Il riferimento è a quel che succede già nelle periferie urbane e nelle cosiddette città satellite. A Zingonia, nella Bergamasca, quattro anni fa ha preso forma un progetto di contrasto al degrado sociale e all’emergenza abitativa: in mezzo alle torri, simbolo fisico di separazione ed esclusione su un territorio che è pertinenza di ben cinque Comuni, un gruppo di operatori sociali ha deciso di dar vita a un tavolo di progettazione sociale, per «rigenerare» un territorio considerato perduto.

In uno spazio in cui abitano 120 famiglie di 23 etnie diverse, dove il diritto alla casa si concretizzava semplicemente nella presa di possesso degli appartamenti lasciati liberi, si è deciso di ripartire dall’abc. «Abbiamo fatto una mappatura puntuale di chi era presente, abitazione per abitazione. Siamo ripartiti dai contatori, dalla fornitura di acqua e gas, dalla luce nelle scale – racconta Eleonora Moretti, referente del progetto per la cooperativa 'Il Pugno Aperto' –. Per responsabilizzare i condomini, abbiamo nominato dei capiscala, responsabili per la tenuta delle aree comuni e per la gestione dei pagamenti. Abbiamo riattivato la portineria, dandole valore di luogo d’incontro, e ripristinato l’assemblea una volta all’anno». Non è stato importante capire se, tra i soggetti morosi, ci fossero più nordafricani o più italiani, se i fenomeni di malavita organizzata nei palazzi avessero origine straniera o autoctona: è stato necessario intervenire per ridare dignità a chi c’era (e neppure chiedeva interventi, a dir la verità).

«Con un’amministrazione pubblica ed enti locali che spesso hanno le mani legate dalla burocrazia – continua Moretti – era prioritario muoversi dal basso per dare un segnale». Nei ghetti d’Italia, le relazioni e il porta a porta spesso contano di più dell’azione politica. «A Prato, regole alla mano, abbiamo fatto 70 assegnazioni di case popolari a famiglie italiane e 30 a famiglie straniere» spiega il sindaco Matteo Biffoni, delegato Anci all’immigrazione, che non nasconde difficoltà e preoccupazioni, affiorate da tempo nella comunità toscana in cui sono arrivate decine di migliaia di cinesi in questi anni. «Cerchiamo di essere i sindaci di tutti e vogliamo aiutare chi si è stabilito qui e si considera cittadino. Allo stesso modo, ci sarà tolleranza zero per chi soffia sul fuoco: recentemente, per chi si è reso protagonista di azioni violente negli alloggi popolari, abbiamo chiesto l’istituzione di una sorta di Daspo, anche a tutela di operatori e assistenti sociali».

Quanto alla concorrenza sleale sul lavoro tra le fabbriche tessili italiane e cinesi, Biffoni preferisce essere realista. «Le aziende si mettono in regola più di prima ma molte di quelle che aprono non sono ancora a norma, dal punto di vista fiscale e contributivo». E il ruolo di garante della coesione sociale di un’istituzione come il Comune? «Per noi ha voluto dire occuparci della 'fascia grigia' che si sviluppa intorno alla povertà: per quei nuclei familiari, italiani e stranieri, in cui i coniugi hanno perso il lavoro, abbiamo istituito un bonus di 80 euro al mese a persona. Li troviamo tra le pieghe del bilancio e servono a tanti pratesi per rispondere ai problemi quotidiani».

È il perdurare della crisi economica sul territorio, infatti, ad obbligare sindaci e cooperative a trovare soluzioni-ponte per arginare le difficoltà delle famiglie. Anche dal punto di vista delle opportunità occupazionali, il discorso non cambia. Secondo un rapporto del Centro studi di Confindustria del 2016, «gli immigrati in Italia incidono strutturalmente su una fetta del mercato del lavoro poco appetibile per la manodopera nazionale. La quota dei cittadini stranieri passa da meno dell’1% in alcuni comparti del terziario (pubblica amministrazione, credito e assicurazioni) al 9,6% nell’industria, per sfiorare il 40% nei servizi collettivi e personali che includono quelli domestici e di cura alla persona». I n particolare, tra il personale non qualificato nei servizi collettivi e personali «l’incidenza dei lavoratori stranieri arriva quasi al 70%, a riflesso della predominanza degli immigrati nel lavoro domestico».

Più che di concorrenzialità, dunque, bisognerebbe parlare di complementarietà tra italiani e stranieri, visto che le cifre confermano «una maggiore disponibilità» da parte degli immigrati, anche quelli più istruiti, ad accettare lavori meno remunerati e che richiedono minori competenze. Anche in questo caso, peraltro, la percezione dell’opinione pubblica è completamente distorta. «Circa un terzo degli italiani crede che gli stranieri rappresentino un costo netto per il bilancio pubblico (29,6%), altrettanti sono convinti che abbassino il livello medio dei salari (34%), circa due su cinque che sottraggano posti di lavoro (39%)». La propaganda resta dunque più forte dei numeri e della realtà: il lavoro per disinnescare le mine disseminate sulla via della coesione sociale è ancora lungo e pieno di ostacoli.

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