giovedì 15 luglio 2010
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La notizia non avrebbe nulla di eccezionale se non fosse che la volontà di vivere è stata espressa da un uomo – un inglese di 43 anni – a cui stavano per staccare il respiratore che lo teneva in vita. E se non fosse che la Bbc è riuscita a catturare le immagini del fatto, accaduto nove mesi fa nel reparto neurologico dell’ospedale Addenbrooke di Cambridge, mentre una troupe stava realizzando un documentario. La diffusione del servizio televisivo ha avuto grande risonanza su tutti i quotidiani inglesi di ieri e ha impressionato l’opinione pubblica della Gran Bretagna, riportando alla ribalta la delicatezza delle decisioni di fine vita.Il caso è veramente da manuale. Richard Rudd era stato investito con la moto il 23 ottobre 2009, in seguito all’incidente era rimasto completamente paralizzato, con le ulteriori complicanze di una polmonite e di un blocco renale. Il padre aveva autorizzato i medici a interrompere la respirazione artificiale, perché quando un incidente simile era accaduto a un suo amico Richard aveva espresso la volontà di non vivere attaccato a una macchina. Giunti al momento decisivo i medici hanno però notato che Richard per la prima volta aveva sbattuto gli occhi. Ovviamente gli hanno chiesto se volesse rimanere in vita e lui per tre volte ha mosso gli occhi verso sinistra, per dire il suo sì, la sua volontà di vivere.La vicenda fa riflettere: innanzitutto, sulla grande incertezza e sulla variabilità della volontà personale di sospendere le terapie. Dovremmo sapere molto bene che un conto è la volontà espressa quando si è in piena salute o sotto l’influsso doloroso della difficile condizione esistenziale di un amico o un parente, tutto un altro è decidere di se stessi nel momento in cui si diventa fragilissimi e appesi alla vita con un filo. Si scopre, allora, che non desideriamo affatto spezzare questo filo, per quanto sottile esso sia. Una simile mutevolezza delle decisioni nei confronti del proprio vivere, seppure in condizioni precarie, dovrebbe rendere più attenti rispetto alla vincolatività che si vuole attribuire alle direttive da lasciar scritte nei cosiddetti testamenti biologici. Per la salvaguardia di un valore essenziale, quale è quello della vita umana, è certamente meglio che tali direttive siano solo orientative e che i medici possano decidere il miglior bene per il malato.In secondo luogo bisognerebbe spazzar via tutti i veri o presunti "ricordi" di parenti e amici, che appaiono con regolarità nelle cronache su episodi simili: da essi infatti può scaturire un danno irreparabile per la persona impossibilitata a esprimersi. La forma scritta – per quanto incapace di tener conto dell’evoluzione di una persona – è il solo modo affidabile per eventualmente manifestare le proprie volontà. Essa è un mezzo necessario di protezione della vita di fronte a malintesi, sentimentalismi, o interessi di terzi. Il favor vitae, poi, è un principio cardine di ogni ordinamento davvero civile. Purtroppo, però, in più Paesi si sta scivolando nella direzione di un’aperta superficialità nei confronti della vita, per cui tutti i casi limite vengono considerati nient’altro che vite inutili: di fronte a esse ogni appiglio sembra sufficiente per dare la morte, giustificandosi col dire che così si sta semplicemente realizzando la libertà del morente. Chi si oppone a questo scivolamento nel disimpegno nei confronti degli esseri umani più fragili viene persino accusato di essere attaccato materialisticamente alla vita.Richard Rudd vuole vivere. Speriamo che ora nessuno lo accusi di «vitalismo».
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