Totò Cuffaro era colpevole. Ma sembra che quel Totò Cuffaro sia morto dietro le sbarre del carcere di Rebibbia, dando la vita a un uomo nuovo. Lo stesso che, partecipando a un convegno sulle carceri nella sede dell’Assemblea regionale siciliana (e nella sala intitolata a Piersanti Mattarella), ha accettato che sotto il suo nome non fosse scritto «ex presidente della Regione» ma «ex detenuto». Lo stesso che in quella sede ha detto: «La vita mi ha fatto pagare un conto meritato, ma ha rimesso in ordine i miei valori. Non posso lamentarmi se non mi hanno fatto uscire dal carcere per assistere ai funerali di mio padre, perché quando lui mi chiamava per il suo compleanno io non ci andavo perché avevo aula o giunta, o altro da fare». Un conto salato e disonorevole: sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a “cosa nostra”. Ma se il risultato è questo, chi si ostina a credere allo Stato di diritto non può che applaudire.
Per la rinascita di un uomo, innanzi tutto. E poi perché Cuffaro, l’ex-politico condannato per mafia, oggi è il miglior testimonial possibile dell’articolo 27 della Costituzione. In cui è stabilito – tra l’altro – che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Qualcuno, lo sappiamo, penserà: ma sarà davvero cambiato? Sarà sincero l’uomo al quale alcuni giornalisti affibbiarono il soprannome di «vasa vasa» («bacia bacia», in dialetto siciliano) per l’abitudine di salutare baciando praticamente tutti quelli che incontrava? Quest’abitudine, che il diretto interessato ha sempre attribuito a un carattere cordiale, è stata spesso interpretata come astuzia melliflua da politicante senza troppi scrupoli.
Tuttavia, come si deve credere alla sentenze e, in questo caso, alla colpevolezza di Cuffaro, allo stesso modo abbiamo l’obbligo morale di credere che sia cambiato sul serio. Del resto, perché mai dovrebbe venirci a raccontare che «il carcere ti porta spesso a vergognarti del giudizio che la gente ha di te, e quella vergogna poi si trasforma in rimorso»? Perché sottoporsi di nuovo a quel giudizio, da «ex detenuto», se non per dire che si tratta ormai di un’altra vita? Una vita che giustamente gli ha presentato il conto, ma che gli ha anche insegnato tanto. Per esempio che “dentro” non ci sono mostri ma «persone vere», che il carcere «è una comunità». Dove capita di conoscere compagni «con il cancro, lasciati in cella in attesa di cure per mesi»; di dividere con altri quattro una cella di tre metri per quattro; di non vedere più qualcuno, all’improvviso, perché nella notte si è suicidato.
Probabilmente chi ha contestato la presenza di Cuffaro a Palazzo dei Normanni non sa che la legalità non vuol dire vendetta di Stato. Forse non si accorge che lo Stato, e la legalità, vincono nel momento stesso in cui l’ex-detenuto Totò afferma: «So di avere commesso mille errori, e forse non li ho pagati tutti, ma se questo Paese penserà che andare incontro agli altri è importante, alla fine un’idea di speranza potrà vincere». Un’idea di speranza. La speranza di un diritto certo, di una giustizia giusta. Ma al contrario lo Stato, e la legalità e la Costituzione, sono sconfitti quando – proprio mentre Cuffaro parla a Palermo – i volontari dell’associazione Antigone visitano il carcere di Benevento e certificano la presenza di 394 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 261. Tra loro, solo 243 hanno una condanna definitiva.