mercoledì 1 maggio 2013
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Le buone notizie, quando arrivano dal pianeta della speculazione internazionale e riguardano i grandi istituti finanziari, vanno sempre prese con le pinze. Perché l’etica da queste parti non è mai disgiunta dall’interesse, e perché solitamente i cambi di direzione sono molto timidi e incorporano spesso ricadute e controindicazioni. Ma le buone notizie vanno anche date per quello che sono: notizie innanzitutto, e positive per ciò che possono rappresentare in prospettiva. Tale è la 'svolta' di alcuni grandi investitori, banche e fondi pensione – tra questi, colossi tedeschi, francesi e britannici come Commerzbank, Bnp Paribas e Barclays – che hanno incominciato a prendere le distanze dagli investimenti speculativi nelle materie prime agricole: chi rinunciando a collocare nuovi prodotti legati a mais, grano o soia, chi togliendo le commodity agricole dai propri fondi di settore, chi riducendo semplicemente l’esposizione in questi mercati.La ragione di questo orientamento risponde 'anche' a considerazioni di carattere etico. La speculazione sul cibo è molto spesso all’origine delle crisi alimentari e della fame cui vengono ridotte intere popolazioni nelle zone più povere del pianeta. È sufficiente la notizia di una siccità o di un raccolto inferiore alle previsioni in una determinata regione del mondo per scatenare gli appetiti dei fondi speculativi e far letteralmente impazzire i listini del cibo, generando ingenti ricchezze e allo stesso tempo provocando nuove drammatiche povertà. Giocare con l’andamento futuro dei prezzi del cibo è qualcosa di radicato nella natura stessa delle borse alimentari. Il problema è che dopo la deregolamentazione dei contratti derivati degli anni 2000, i rapporti di forza tra chi stipula un 'future' come forma di assicurazione sulla variazione dei prezzi e chi invece non ha alcuna intenzione di acquistare cereali, grano o soia, ma punta solo a inseguire alti rendimenti, si sono totalmente invertiti: nel 1996 i 'derivati' di sola speculazione sul granoturco erano poco più del 10% del totale, nel 2008 sono diventati il 65%. Oggi, però, grazie alla mobilitazione di Ong e associazioni, la sensibilità delle persone e dei consumatori su questi problemi è cresciuta a tal punto che, come abbiamo visto, i big della finanza incominciano a considerare necessario un cambio di approccio. Certo, la motivazione etica della 'svolta' può non essere preponderante. La crisi alimentare globale del 2008 si deve proprio al fatto che lo scoppio della bolla dei mutui subprime aveva spinto i grandi investitori a cercare nuove occasioni di guadagno, trovandole proprio nelle borse delle materie prime agricole. E ora che questi mercati sono diventati meno redditizi il cambio di strategia può essere legato anche al fatto che i capitali si sono messi semplicemente in cerca di un altro pascolo da mungere. La vicenda, però, insegna che non è dirimente indagare le ragioni di una scelta. Svolta etica o no – lo abbiamo detto anche in occasione della tragedia nella fabbrica tessile in Bangladesh costata la vita a 387 persone – è sempre più nella capacità e nella volontà dei consumatori di essere informati e attenti alle proprie scelte di acquisto e di investimento che passa la costruzione di un mercato più giusto oltre che di un’economia rispettosa dei più deboli. La crisi che stiamo attraversando non nasce solo dalla volontà di un manipolo di avidi banchieri e di alcuni manager della finanza, ma è anche l’effetto di tante piccole azioni individuali incapaci di interpretare le ricadute globali. La vera 'svolta' è incominciare ad esserne consapevoli.
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