Sovranismo non è patria
giovedì 22 novembre 2018

Su che cosa rischia un continente dove si erigono di nuovo muri e barriere di filo spinato avrebbe già detto tutto Victor Hugo: una guerra fra europei è una "guerra civile". Ma oggi i conflitti non si combattono più necessariamente con fucili e cannoni, bensì a colpi di dazi, demagogia e procedure d’infrazione. Eppure. La tensione è altissima. "Il nazionalismo è un tradimento del patriottismo", ha ammonito il presidente francese Emmanuel Macron. "Il nazionalismo porta alla guerra’", ha rincarato la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ne conosce il virus su entrambi i fronti, avendo varcato il muro da giovane, ma in direzione Ddr. Anche chi in teoria dovrebbe condividere i piani sovranisti italiani, come Austria e Ungheria, richiama con forza Roma al rispetto di Maastricht perché altrimenti saranno dolori. In un clima difficile, da tutti contro tutti, dove si intravede all’orizzonte l’ennesimo gattopardesco direttorio franco-tedesco, le sorti del continente sono davvero incerte. Da questa parte dell’oceano l’emergenza è sociale prima ancora che politica. Ma per sessanta anni non è stato così.

Grazie anche all’azione di statisti come De Gasperi, Schuman, Adenaur, Spaak, Monnet, Kohl, Mitterand, dal 1957 al 2007 i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione europea e la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro volte, con una riduzione delle disuguaglianze che non ha avuto eguali nella storia. L’ultimo decennio di crisi ha invece capovolto questo processo. Si sta allargando la forbice tra i ricchi e poveri e tra regioni arretrate e sviluppate.

L'80% della nuova ricchezza va al 15% della popolazione più agiata. Crescono le asimmetrie, soprattutto per i giovani. In molti Stati membri i salari reali sono fermi dal 2008. Per la prima volta da mezzo secolo, le nuove generazioni sono allo sbando: 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Ben 118 milioni, il 24% della nostra popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale. Un esercito che farebbe la fortuna di qualsiasi dittatore in un’Unione Europea composta da Paesi ricchi retti da Stati impoveriti, qualcosa che ricorda molto da vicino la situazione dell’Italia. In un contesto del genere servirebbe sentirsi una nazione.

Ma manca quasi tutto per diventarlo: un esercito comune, una lingua comune, un debito comune. E una patria, costruita su diritti condivisi. Michele Ainis sostiene che «a proposito di libertà, di diritti individuali e collettivi o essi sono di tutti o di nessuno, giacché la libertà di pochi non è più un diritto, è un privilegio». Secondo Giuliano Amato «c’è il rischio che questa torsione autoritaria e illiberale della democrazia si consolidi e non si riesca a fermarla in tempo utile». Il nazionalismo, che oggi mette in pericolo la tenuta stessa dei valori dell’Unione Europea, è un sentimento, un moto d’opinione che ricorda quello dei primi del Novecento o piuttosto un alibi per tornare a essere padroni in casa propria? Una risposta autorevole e più ottimista l’ha fornita il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il giorno della festa della Repubblica italiana. «Oggi possiamo dirlo con ancora maggior forza: l’amor di Patria non coincide con l’estremismo nazionalista. L’amor di Patria viene da più lontano, dal Risorgimento. Un impegno di libertà, per affrancarsi dal dominio imposto con la forza: allora da Stati stranieri».

Dunque chi spaccia l’amor di patria per nazionalismo in un quadro di azzardo e incertezze effettua un falso storico. Il primo convive con i valori democratici e trae forza anche dalla condivisione dell’esperienza europea. Il secondo, a vedere come si muovono i partiti in prossimità delle elezioni europee, trasforma le imperfezioni comunitarie in un alibi per poter ricostruire un senso di Stato dopo tanta cessione di sovranità nei confronti dell’Ue. Non sembra ipotizzabile che una volta seduti sugli scranni del Parlamento europeo, della Commissione o nel board della Banca centrale europea, i sovranisti contemporanei, Orban, Le Pen, Salvini, Kurz, possano rinunciare alle poltrone, agli agi e alla vita privilegiata di ogni euroburocrate che hanno nel mirino per scatenare una rivoluzione populista anti- europea. Per questo è importante continuare a guardarsi dentro i confini nazionali.

Il nazionalismo odierno che spaventa l’Europa può infatti essere pericoloso se l’Europa fosse qualcosa di più di una confederazione, ma diventa invece una minaccia per gli assetti degli Stati democratici, dove potrà svolgere con più facilità di movimento i suoi programmi. È una sfida decisiva. Da una parte, l’Unione, che si è consolidata nella coscienza degli europei, molto più di quanto non dicano le necessarie quanto tortuose decisioni comuni, ancora in cerca di una patria. Dall’altra, gli Stati, aggrappati alle bandiere, alla nostalgia delle divise e delle monete che si illudono di rappresentarla. In mezzo, diatribe contabili su deficit e debito che nascondono il nulla delle ideologie, eludendo i problemi reali e lo spaesamento delle persone.

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