Soumaila cercava lavoro e trovò morte: doveroso impegnarsi in sua memoria
giovedì 1 giugno 2023

Soumaila Sacko, 29 anni, bracciante del Mali. Cinque anni fa, il 2 giugno 2018, un colpo di fucile alla testa lo ha ucciso. Si trovava nella ex fornace “La tranquilla” nel comune di San Calogero assieme a due amici. Raccoglievano lamiere, in quel luogo abbandonato, per rinforzare le loro baracche nel ghetto di San Ferdinando, l’immensa baraccopoli della Piana di Gioia Tauro. Un “non luogo” dove arrivavano a vivere, a sopravvivere, più di 3mila persone. A sparare era stato Antonio Pontoriero. Considerava l’area come propria pur non avendone alcun titolo. L’ex fornace era, infatti, sotto sequestro, e di fatto abbandonata, dopo il ritrovamento di 135mila tonnellate di rifiuti industriali interrati. Sparò vari colpi, mirando a Soumaila e ai suoi amici. Lo scorso 17 gennaio la Cassazione ha confermato la condanna a 22 anni.

Giustizia fatta? Solo in parte. Il ghetto di San Ferdinando non c’è più, abbattuto il 6 marzo 2019, sostituito da una tendopoli che doveva essere la soluzione per i braccianti che a migliaia vengono nella Piana di Gioia Tauro a raccogliere agrumi, kiwi, olive. Ma la tendopoli si è trasformata in un nuovo ghetto. E l’emozione, l’indignazione per la morte di Soumaila sono state presto dimenticate. Ancora sfruttamento in questi anni, altri morti bruciati nelle baracche e nelle tende. In Calabria, in Puglia, in Sicilia, in Basilicata. Vittime di caporalato e di imprenditori che lo utilizzano. Soumaila va ricordato per quello che era, un immigrato scampato al viaggio su un barcone, agli incendi delle baracche e perfino alla malasanità quando un’ulcera perforata lo stava uccidendo ma nessuno lo ascoltava, tranne don Roberto Meduri, parroco amico dei migranti. Si era salvato ancora una volta Soumaila, gran lavoratore ma sempre senza diritti e tutele. Solo pochi giorni prima di essere ucciso aveva avuto finalmente la notizia di un prossimo vero e sicuro contratto. Finalmente giustizia e diritti. Per sé, per la giovane moglie e la figlia di 5 anni lasciate nel Mali. Troppo tardi. Il suo gran cuore lo ha portato ad accompagnare i due amici. Tre persone diventate bersagli. Così diventa un simbolo. Non avrebbe voluto, ma lo diventa. Ma per poco. Perché malgrado la sua morte nulla o quasi è cambiato. In Calabria come in tanti altri territori. E anche l’elenco dei morti si è allungato. Morti bruciati nei ghetti foggiani di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci. Suicidi per disperazione come nell’Agro pontino. Morti investiti mentre nel Casertano tornano in bicicletta a casa (ma che casa?) dopo 10-12 ore di lavoro. Morti ammazzati come Adnan Siddique, pachistano di 32 anni, ucciso il 3 giugno 2020 a Caltanissetta per aver difeso i diritti dei braccianti contro lo sfruttamento dei caporali. O come Daouda Diane, 37 anni, mediatore culturale ivoriano scomparso il 2 luglio scorso ad Acate in provincia di Ragusa in circostanze rimaste oscure.

Quanti drammi in questi cinque anni, quante negazioni dei diritti. Diritto al lavoro, quello vero, diritto alla salute, diritto alla casa, diritto alla sicurezza. Storie che faticano a trovare spazio sui media. Poche righe e poi un colpevole oblio. Scriviamo, ed è giusto e necessario, di rotte, sbarchi, naufragi. Ma dopo? Cosa succede dopo? Ogni tanto una morte drammatica come quella di Soumaila ci ricorda che c’è un dopo di sfruttamento, violenza, morte. Ma ci vogliono nell’agosto 2018 i 16 morti in due incidenti stradali nel Foggiano per ricordarci come viaggino i braccianti immigrati, stipati in 10-15 in un pullmino. E intanto nei campi uomini, donne e perfino bambini continuano a buttare sudore e sangue per le nostre insalatine e le nostre passate di pomodoro. Per pochi euro al giorno. E allora ricordiamo Soumaila Sacko ma non come eroe o come martire. Ma come giovane uomo che nel nostro Paese cercava lavoro, futuro, per sé e per la sua giovane famiglia. E che invece ha trovato solo sfruttamento e infine morte.

La memoria ha un senso solo se diventa impegno. Ancora di più per i tanti Soumaila dei nostri campi. Lui, bracciante immigrato, venne ucciso i 2 giugno Festa della Repubblica. Una Repubblica che, recita il primo articolo della nostra bella Costituzione, “è fondata sul lavoro”.

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