venerdì 16 maggio 2014
Dopo la «cura» della Troika il Pil risale, la povertà resta
di Giorgio Ferrari
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​«Lo vede questo cielo blu e verde? Ha lo stesso colore degli smalti dell’antichità, la pasta vitrea che cercava di imitare il lapislazzuli e la malachite. Anche il cielo sopra le nostre teste è uno smalto, uno smalto che copre la nostra povertà sotto una patina sottile di ottimismo. Sottilissima, fragile, basta niente a incrinarla. Ma oggi è il Primo Maggio e siamo obbligati ad essere ottimisti. Quando si andrà a votare per le europee e le amministrative vedrà come sarà diverso il cielo...».
Chi l’avrebbe detto che Vasili Primikiris, portavoce del comitato centrale di Syriza, con quella mascella sghemba che le attenzioni del regime dei colonnelli gli hanno lasciato in eredità e quello stentoreo stile oratorio che sarebbe piaciuto a Demostene fosse anche capace di poesia? Ma forse una dose di slancio lirico ci vuole di fronte ai due mondi – l’un contro l’altro armati – che si fronteggiano ringhiosi nella Grecia post-default che si appresta ad andare alle urne e a portare in Europa il suo messaggio. Di qua ci sono le cifre che raccontano il più grande programma di ristrutturazione della Storia: 107 miliardi di euro di tagli del valore nominale dei bond detenuti da privati, 246 miliardi di euro di prestiti per il salvataggio concordato con la Troika e il ricordo di un debito sovrano che solo due anni fa prometteva tassi di interesse del 40% pur di attrarre capitali, oggi miracolosamente sceso al 5% con un avanzo primario del bilancio dello Stato pari all’1,5% del Pil che improvvisamente riprende a crescere dopo anni di recessione spaventosa e promette per il 2015 un balzo del 2,9%. Di là c’è un Paese attraversato da una ferita trasversale che ha tagliato in due il corpo sociale lasciandogli cicatrici profonde e ben lontane dall’essere sanate, un quadro congiunturale che l’economista e analista del Guardian Costas Lavapistas ha definito «una stabilità raggiunta sulle macerie».
Le macerie sociali ci sono e si vedono. Si vedono negli ambulanti che si sono messi a regalare frutta e verdura nella centralissima piazza del Monastero attirando una folla immensa di ateniesi; si vedono nei portuali atterriti dall’ipotesi di una vendita al ribasso dell’unico settore profittevole dell’economia greca, quello dei trasporti marittimi; si vedono nei tanti esercizi commerciali che non hanno più riaperto i battenti, nel 30% della popolazione che non ha più copertura sanitaria, nell’oltre 70% delle famiglie che ha debiti con l’erario e non riesce a onorare prestiti, mutui, a coprire carte di credito, cambiali, assegni. Non c’è da stupirsene: il tasso di disoccupazione arriva al 28%, ma quello giovanile sfiora il 60 e la quota di popolazione disoccupata o inoccupata è superiore ai 3 milioni e 450 mila greci che un’attività lavorativa (e quindi un reddito da lavoro) ancora ce l’hanno, mentre i salari medi sono calati del 30% e quelli minimi non arrivano ai 500 euro. «In compenso – dice Primikiris – pensioni, scuola, sanità sono state sforbiciate senza pietà, quasi il 45% della popolazione sta sotto o appena sopra la soglia di povertà».
Domandarsi quale direzione prenderà il voto di maggio sembra quasi retorico: Syriza, il partito di Alexis Tsipras, candidato anche alla presidenza della Commissione Ue per la Sinistra Europea, ha concrete possibilità di affermarsi come partito di maggioranza relativa, togliendo consensi perfino a Nea Demokratia, il partito di centro–destra di Antonis Samaras («Il partito della Merkel!», come lo chiama con sdegno Primikiris) . I sondaggi gli attribuiscono almeno 6 dei 22 seggi che spettano alla Grecia all’Europarlamento. Ma Tsipras considera – come accade anche da noi – il voto europeo come un referendum sul governo e se vincesse le elezioni chiederebbe a Samaras di dimettersi.Etichettare Syriza come partito antieuropeo sarebbe un frettoloso errore. Tsipras non chiede di uscire dall’euro come fanno certe formazioni radicali spuntate dovunque in Europa, ma di rinegoziare il debito e bloccare le politiche di austerity contenute nel famigerato "Memorandum", in pratica i "compiti a casa" imposti dalla Germania ad Atene. Vuole una via greca all’Europa, una strategia per ripensare l’Unione Europea e il suo rapporto con i cittadini, che serva a tutti, non solo ai greci, «dove – come recitano in coro a Syriza – si è fatta macelleria sociale, dove si sono fatti esperimenti da laboratorio sul corpo sociale senza riguardi per milioni di persone».
Tenete bene a mente quest’ultima frase, perché è la stessa che sentiamo poche ore dopo nella sede provvisoria (dopo le incriminazioni e gli arresti una ufficiale non la si trova più) di Alba Dorata, la formazione xenofoba di ultradestra balzata agli onori della cronaca con un 7% di consensi alle elezioni politiche e con un pronostico di superarlo nelle consultazioni di maggio. «Avanti, dica anche lei che siamo neonazisti che le rispondo subito che non è così – mette avanti le mani Kostias, nome di battaglia di un portavoce autorizzato –: noi siamo nazionalisti, e lo so, c’è il meandro, che sembra una svastica e invece è un ornamento antichissimo che troviamo dovunque e che voi non a caso chiamate "greca"».
Sarà, ma il programma di Alba Dorata non si presta ad equivoci: «Fuori gli extracomunitari, questo è il primo punto. Secondo, cancellare il "Memorandum". Terzo, abolire il finanziamento pubblico dei partiti. Quarto, ridurre il numero dei parlamentari». Nei mesi scorsi il segretario del partito Nikolaos Michaloliàkos e alcuni dirigenti del partito sono finiti in carcere con l’accusa di aver costituito un’organizzazione criminale. Loro si considerano delle vittime. Nondimeno la loro stampa si proclama neopagana e ostile al cristianesimo, esalta la razza, la purezza etnica, Blut un Boden, sangue e suolo, santificando lo scontro fisico «con i nemici di sinistra e gli amici degli extracomunitari». Sanno di non poter influire sui destini d’Europa, ma si battono lo stesso per l’uscita della Grecia dall’euro. «Abbiamo pagato abbastanza gli esperimenti sociali in vitro della signora Merkel, è tempo di dire basta».
Dal Fondo Monetario Internazionale giunge una ciambella di salvataggio – molto interessata, peraltro – a Samaras: i conti migliorano, dicono, la cura ha funzionato, la ricetta era quella giusta. «Mia kravgaléa pséma, una clamorosa menzogna», tuona Metrodora Iliakis, vecchia conoscenza dell’Università di Atene. «Guarda qui, amico mio, guarda quel contatore: vedi, questo è il nostro giudice e il nostro carnefice insieme: se non paghi il canone televisivo, se non paghi una bolletta, se non paghi una delle tre tasse sulla casa (voi ne avete una sola, se non sbaglio, noi tre!) ti tolgono la luce. Il mio stipendio è stato decurtato, la tredicesima non ce l’ho più». A Kolonaki, quartiere chic di Atene, gli affitti sono ridotti a una miseria, un negozio su tre è chiuso, cartelli di vendita ovunque. Cosa voterai il 25 maggio, ti va di dirlo? «Certo. Voterò Syriza». Funzionerà? «No, ma Samaras avrà forse messo a posto i conti dello Stato, a spese però delle tasche di tutti noi. E ora sarebbe bene che fosse lui a pagare qualcosa».
L’Europa matrigna genera il buio nel cuore. Come sparvieri, i cattivi pensieri trasmigrano nervosi sulle teste degli ateniesi chini ai tavolini dei caffè in un infinito cicaleggio, miliardi di parole, un dialogo infinito su ciò che è giusto fare e ciò che sarebbe meglio fare ma non lo si fa. Poco distante, in Piazza Syntagma, teatro di  tante rumorose e a volte violente manifestazioni, sfilano meste sotto il cielo del Primo Maggio le bandiere scolorite della sinistra. Non c’è festa e nemmeno illusione. Solo un tetro calpestio, un muto desencanto, come lo avrebbe chiamato Garcia Lorca. Lo stesso desencanto che striscia, mormora, ruggisce in molte contrade d’Europa.  Alzo agli occhi al cielo. E’ di un azzurro purissimo, neanche una nuvola. «Lo smalto, si ricordi lo smalto: e quello che c’è sotto...»
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