Solo il perdono vincerà l'odio in Medio Oriente
mercoledì 21 febbraio 2024

Perdono: una parola impronunciabile nella pratica politica. La si può ripescare nello scontro in atto fra Israele e Palestina? Si può osare tanto in uno slancio venato d’utopia in un conflitto che risponde solo alla logica del realismo politico? Ma se la politica, come diceva Plutarco, è ciò che toglie all’odio il suo carattere eterno, ci si può provare con un ragionamento ardito e – dirà qualcuno sorridendo – insignificante e inconcludente. Parola chiave del cristianesimo, come noto. Tanto che in due occasioni del recente passato, legate a tragedie dall’innegabile risvolto politico, in Sudafrica e Ruanda, proprio grazie al cristianesimo è stato possibile voltare pagina. Ci riferiamo alle commissioni Verità, Giustizia e Riconciliazione che hanno sanato le ferite inferte dall’apartheid e dal genocidio nei due Paesi africani. Nel secondo caso, purtroppo, verificatesi anche per responsabilità del cristianesimo stesso. Perdono vorrebbe dire ora che Hamas rilasciasse immediatamente, senza condizioni, gli ostaggi innocenti e inermi ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza, che sono stati rapiti nel corso della terribile mattanza del 7 ottobre, un atto d’orrore e di terrore che ha visto i fanatici islamisti trucidare bambini, giovani, donne e anziani, persone senza colpa e spesso facenti parte del mondo pacifista israeliano.

Perdono vorrebbe dire che subito dopo, immediatamente dopo, Israele facesse tacere le armi e che si cominciasse ad avviare un faticosissimo e insperato – alla luce di quanto accade oggi – percorso di pace. Che porti alla costruzione di uno Stato palestinese in cui non ci sia spazio per il terrore e per la volontà di annientamento del vicino Stato di Israele, che porti i leader palestinesi del futuro a impiegare le tante risorse economiche che la comunità internazionale garantirà – e che ha sempre garantito – non per comprare armi e missili ma per costruire – e ricostruire a Gaza – abitazioni, scuole, ospedali, centri culturali: un tessuto urbano vivibile e pacifico. E che porti Israele a rinunciare a una politica di segregazione verso i palestinesi e a poter realizzare accordi di pace e collaborazione con i Paesi arabi.

Un sogno? Indubbiamente. Ma noi cristiani siamo chiamati a costruire il sogno della pace. Con la preghiera, come ci richiama costantemente papa Francesco, e con la forza attiva di una presenza che in Terra Santa è minoritaria ma che da sempre è il segno di un ruolo di garante di pace e collaborazione fra culture e religioni. Ma c’è la necessità di far sentire ancor più la propria voce, il proprio grido di pace. Facendo capire che la logica del perdono non è così inarrivabile nel mondo della geopolitica. Con due consapevolezze di tipo culturale: che è possibile porre critiche a chi governa Israele senza essere tacciati di antisemitismo e che è ingiusto parlare di genocidio per quanto sta accadendo a Gaza, dato che il genocidio è il progetto di annientamento di un intero popolo (come nel caso di quello armeno del 1917 voluto dai turchi o di quello ebraico voluto dai nazisti).

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