Senza la virtù solo disastri
sabato 14 settembre 2019

La crisi più stressante, che l’Italia ha conosciuto in una breve estate, s’è conclusa in questi giorni, ma entrerà negli annali, ed è già oggi ricca di insegnamenti per ogni parte politica. All’inizio è prevalso lo stupore per le motivazioni addotte, in conclusione ha dominato l’incredulità per i risultati ottenuti: tutti fallimentari ed esattamente contrari a quelli attesi dai promotori della caduta del Governo giallo-verde. La prima domanda che ci si può porre è se siano corretti i criteri di giudizio utilizzati da molti commentatori per valutare quanto avvenuto nei giorni che hanno fatto fibrillare persone e partiti, movimenti e istituzioni? È stata l’incapacità umana che non ha fatto vedere e misurare ciò che era sotto gli occhi di tutti, o la bramosia di potere che ha accecato chi se n’era fatto schiavo; l’eccesso di tatticismo di chi si è creduto più furbo di tutti, o le menzogne su torti o complotti subiti, mentre per altre opinioni proprio un complotto avrebbe aperto la crisi?

Sono vere un po’ tutte queste cose, anche perché le abbiamo viste scorrere una dopo l’altra. Eppure c’è una causa che viene citata raramente, ed è che in politica, come in tanti ambiti dell’agire umano, la ragione prima dei risultati disastrosi sta nella mancanza di virtù, nel disprezzo dell’etica, da parte di chi ha preferito esaltare la scaltrezza, la furbizia, l’opportunismo, epigoni di un malinteso machiavellismo, mentre virtù ed etica sono viste con certo disprezzo, quasi strumenti di debolezza anziché di forza. In realtà, come altre attività, anche la politica è governata in qualche modo da un intreccio tra razionalità ed etica, che determina poi fortuna o sciagure, risultati o fallimenti. La prima concezione della virtù che si può evocare è quella di Aristotele, per il quale essa è uno strumento che porta alla realizzazione di sé in diversi campi della vita ma, se negata, porta al naufragio di molti progetti. La visione cristiana, allargando l’orizzonte, ritiene le virtù mezzi d’affinamento personale e spirituale, e considera la giustizia come la prima delle virtù, da cui scaturiscono tutte le altre che sono «il frutto delle sue fatiche» (Sap. 8,7). Di qui, la virtù massima della politica che san Tommaso individua nel dare giustizia, perseguire il bene comune, senza il quale i «regni» non sono che «grandi latrocini». Altri perfezionano il concetto di virtù, che per Adam Smith comprende il dominio di sé, la prudenza, la benevolenza, davvero utili nell’agire politico, mentre per Immanuel Kant costituisce la base antropologica per formare un bonus civis, anche nel compimento dei propri doveri.

Insomma, nell’orizzonte classico, cristiano e della modernità, la virtù non è qualcosa di noioso, di moralistico, ma un bene prezioso che spesso porta al successo, mentre la sua ripulsa prima o poi genera disastri. L’etica, a sua volta, è il fondamento nobile della gestione della cosa pubblica, perché mostra i grandi fini che si devono perseguire per i salti di progresso e di civilizzazione dell’evoluzione umana. Con gli occhi di un altero cinismo, c’è chi sorride di una concezione etica e virtuosa della politica, ma quando si guarda ai risultati di certe operazioni perse nel nulla c’è poco da ridere, e c’è da pentirsi davvero per tante superbie finite in cenere, di fronte ai potenti deposti presto dai loro troni, alla furbizia insulsa e foriera di male per chi se ne vanta.

Almeno due le prove più eclatanti del fatto che la mancanza di etica e razionalità ha condotto alla sconfitta di chi ha voluto la crisi. La prima riguarda le lamentele continue del leader della Lega, Matteo Salvini, che ha fatto cadere il "suo" Governo, ma ha poi preso a rimproverare gli altri per i "danni" che si sarebbero verificati: trasformismo, unioni politiche innaturali, reazioni per difendere la legislatura, e via di seguito.

Mai però l’interessato ha riconosciuto che lui, e lui solo, aveva aperto la crisi, divenendo così il responsabile dei danni che denunciava. Mai e poi mai ha ammesso che una sua iniziativa sproporzionata – pretendere con circa un quinto dei voti parlamentari di far sciogliere le Camere – ha provocato una legittima difesa delle istituzioni parlamentari contro la rottura dissennata del quadro politico. La seconda prova riguarda la denuncia continua sui posti e sulle poltrone, cui aspirava la nascente maggioranza, quando per chi aveva fatto cadere il Governo il primo a unico intento era proprio quello di lucrare seggi e posti di ministro in ragione dei sondaggi trionfali e della presunta vittoria elettorale, e puntare, come è stato rilevato domenica 8 settembre da Riccardo Maccioni su queste pagine, allo stravolgimento del nostro equilibrio istituzionale. Però, di furbizia in furbizia, chi voleva sconfiggere tutti gli altri è divenuto vittima di sé stesso, senza scorgere che la più grave colpa era proprio il rifiuto di elementari princìpi di etica e razionalità.

Paradossalmente, però, a chi ha impostato la crisi come un gigantesco derby, in cui chiudere le tante tessere di cui è composta una democrazia moderna, va riconosciuto un merito: l’ha reso estenuante, perfino affascinante, perché ha avuto tra i suoi esiti il riaccendersi di una passione civile ch’era latente, e che, al netto delle grida degli ultras, richiede una attenta riflessione.

Un altro degli intenti che ha guidato la crisi sta nell’aver inseguito sempre un unico obiettivo, quello di combattere e vincere in solitudine, esaltando questa solitudine come un trofeo, per avere i 'pieni poteri'. Così s’è colpito al cuore un principio cardine della democrazia che può farsi forte solo col consenso di forze politiche che trovino una coesione rispettosa anzitutto dei protagonisti in campo, mentre il sogno di un potere solitario crea anticorpi nella società civile: in effetti la grande opzione populista è stata colpita proprio nel punto nevralgico, quello dei consensi vantati, perché in pochi giorni la forza politica che ne era interprete ha perso nei sondaggi molta della presunta forza elettorale.

Di qui, la riflessione può estendersi ulteriormente, guardando al prossimo futuro e interessando tutte le forze politiche. Un rischio grande è stato evitato, ma ciò non vuol dire che il bene (o il minor male) trionfi sempre, soprattutto in un orizzonte politico che deve ancora trovare un punto di equilibrio essenziale, capace di lavorare per il bene comune, dentro una cornice di discussione, elaborazione, programmazione. Ci siamo accorti (non solo in Italia) che le nostre democrazie non sono immuni dalle scorribande di chi non ha rispetto per la res-publica, e di qui scaturisce la necessità per tutte le forze democratiche, all’inizio frastornate da chi voleva sottomettere l’intero sistema ai propri voleri, perfino al proprio calendario, di ritrovare oggi, oltre a un buon programma di governo, quelle ragioni per lo stare insieme che costituiscono il bene più intimo della Costituzione. Non si tratta solo di non ripetere gli errori che altri hanno compiuto nel recente passato, ma di riflettere sulle cause che favoriscono il populismo, affrontare con spirito innovativo quei temi che sono stati sbandierati, estremizzati, da chi ha introdotto in Italia un clima di fazione e di odio che non si conosceva da tempo.

Sappiamo tutti quali sono. Quello della cittadinanza in primo luogo, che non può essere rinchiusa in un recinto ottocentesco che esclude, allontana, chi non è d’accordo, o viene da altri lidi. E quello dell’immigrazione che deve uscire dalla logica del fortino nel quale non entra nessuno, per realizzare un progetto di solidarietà europea davvero non più rinviabile e di garanzie di sicurezza che assicurino i diversi soggetti politici e popolari. Su questi princìpi c’è il consenso di larghe componenti civili e ideali, che si riconoscono nella Costituzione tanto quanto nel magistero di papa Francesco e nell’impegno delle confessioni religiose italiane che vogliono superare la demagogia degli ultimi tempi, senza che rinascano egemonie o forzatura ideologiche tanto male hanno fatto al nostro Paese.

Gli ultimi mesi hanno reso evidente un’altra emergenza, quella di ricondurre le relazioni istituzionali a un clima e a un livello di responsabilità, rispetto di funzioni e competenze costituzionali, di uno stile di decoro e dignità, cioè a un insieme di valori che più volte sono stati compromessi o stravolti. Questo richiamo alla correttezza istituzionale rinvia all’altro grande tema del nostro futuro che riguarda le nuove generazioni. Nei giorni scorsi, alcuni commentatori hanno deprecato lo spettacolo avvilente di chi ha 'giocato' con le istituzioni, mostrando ai giovani solo arroganza, sguaiatezza, disprezzo per i soggetti più deboli della vita sociale, chiamati a volte con epiteti che fanno vergogna a chi li pronuncia. Dobbiamo riflettere su questo snodo centrale della politica, e impegnarci tutti perché cresca nei giovani la voglia di partecipare alla vita pubblica e istituzionale, per restituirle la sua dignità, per fermare quanti, in epoca di populismo, ne fanno solo il piedistallo delle proprie ambizioni. Il tema dei giovani ha la sua ricaduta sulla grande questione della scuola, che da tempo è al centro delle nostre patologie, ma dobbiamo prendere coscienza che la riforma della scuola deve oggi coniugarsi con l’impegno per la partecipazione dei giovani alla nostra democrazia che ha bisogno di dimostrarsi ed essere vitale, alimentata dalle idee e dalle esigenze di cambiamento che si presentano continuamente.

Se riflettiamo davvero su questi temi potremo trarre, anche da una crisi dissennata, utilità e insegnamenti che superano contese specifiche e che ci chiedono di ricostruire un tessuto prezioso di consenso politico e ideale. Non è un obiettivo facile, né scontato, ma solo su questo terreno si potranno un giorno archiviare le malattie del populismo e del sovranismo.

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