venerdì 20 gennaio 2023
La holding fondata nel 1933, e chiusa nel 2002 travolta dai debiti, aveva saputo unire finalità pubbliche e rigore gestionale privato. Prima che la politica ne segnasse il destino
La vecchia sede dell’Iri, in via Vittorio Veneto a Roma

La vecchia sede dell’Iri, in via Vittorio Veneto a Roma

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Il prossimo 23 gennaio l’Iri, Istituto per la ricostruzione industriale, avrebbe compiuto esattamente novant’anni. Ma il destino della grande holding creata nel 1933 da Alberto Beneduce per conto del regime fascista è stato ben più breve: scomparve in vista dei settant’anni nel 2002 travolta dai debiti, dalla tempesta di Mani Pulite e soprattutto da un cambiamento radicale di considerazione per lo “Stato imprenditore”. Eppure, di quella esperienza, giocata sul terreno della partita tra Stato e Mercato, da sempre baricentro del dibattito tra destra, centro e sinistra, vale la pena riparlare. Anche perché oggi il vecchio statalismo, con le sue ragioni di sviluppo programmato e indirizzi sociali, rischia di correre sulle spalle di un nuovo-vecchio “sovranismo” dove a battere il tempo sono le rivendicazioni del primato e dell’interesse nazionale. È inutile, dunque, girare intorno alla domanda che aleggia: ci sono ragioni e condizioni per replicare quell’esperienza?

La prima analogia che viene in mente è che l’Iri nacque dopo e in conseguenza della crisi di Wall Street del 1929 e della seguente Grande Depressione. Allora il sistema bancario italiano – imperniato su Banca Commerciale, Credito Italiano, e Banco di Roma – era legato con le imprese in quella che Raffaele Mattioli chiamò «fratellanza siamese»: le banche sotto “scalata” finanziavano le imprese che controllavano e le imprese a loro volta difendevano le banche, proprie controllanti, con i soldi avuti in prestito. Un giochetto che la storia ci ha mostrato più volte e che, prima o poi, avrebbe trascinato in default tutto il sistema. L’Iri voluta da Mussolini salvò le banche e incamerò anche l’intero portafoglio industriale: con quali reali obiettivi? Come sottolinea la più recente storiografia sull’istituto, a partire da Franco Amatori, storico alla Bocconi e autore di “Libera impresa in libero Stato” (Affinità elettive, 2020), l’idea del suo primo presidente Alberto Beneduce, e di Donato Menichella che lo affiancò, era soprattutto quella di rimettere ordine nel sistema creditizio italiano, e non di dare vita al cosiddetto “Stato imprenditore”.

Con l’Iri lo Stato non volle ripetere l’esperienza dei salvataggi industriali avvenuti nei cinquant’anni precedenti: non si volevano più casi come quelli della Terni (1887), dell’intero settore siderurgico (1911), dell’Ansaldo e quello delle attività industriali che afferivano alla Banca italiana di sconto (1922). E non si voleva neanche, come pure era accaduto, che il direttore generale dell’Ansaldo, che contava 100mila dipendenti, quando aveva bisogno di soldi emettesse una cambiale al “Consorzio sovvenzioni su valori industriali”, una stanzetta presso la Banca d’Italia che copriva tutto stampando moneta. Per questo sul fronte del credito, considerato un ambito “mora-le”, fu presto varata, nel 1936, una nuova legge bancaria per creare un sistema ordinato in cui le ex banche miste, ricorrendo ai depositi della clientela, avrebbero finanziato “a breve” le industrie, mentre gli investimenti di medio-lungo termine sarebbero stati compito dell’Iri e di istituti specializzati come l’Imi, che avrebbero raccolto risorse con i loro prestiti obbligazionari.

Sul fronte industriale l’Iri ebbe l’obiettivo di risanare e ricollocare sul mercato, cercando di rimettere ordine nel sistema di conglomerate industriali, dove convivevano malamente produzioni e settori assai diversi, dalla siderurgia alla elettricità alle telecomunicazioni. Gli esempi sono il rifinanziamento della Stet con un prestito obbligazionario, la creazione della Finmare, la scelta della siderurgia a ciclo integrale con Oscar Sinigaglia negli Anni Quaranta che aprì alla Finsider un ruolo strategico nel rilancio del paese nel Dopoguerra. Nell’ultimo decennio, si sono scatenate grandi crisi finanziarie e forti venti di recessione. Tutto ciò ha provocato enormi sofferenze e incertezza ma gli Stati e le Banche centrali, al contrario della rigidità degli Anni Trenta dello scorso secolo segnata dal gold standard che aggravò la crisi – come rileva Gianni Toniolo nella “Storia della Banca d’Italia” (Il Mulino 2022) – hanno potuto mettere in campo enormi contromisure. Dopo il crac dei subprime del 2007 2008 e la pandemia del 2020-2022 le banche centrali hanno garantito enorme liquidità con il quantitative easing, gli Stati sono intervenuti sul sistema bancario, l’Europa ha varato piani di investimenti come il Next Generation Eu che ha generato in Italia il Pnrr. La recessione non si è evitata, ma la valanga di fallimenti, le aziende zombie e i suicidi dei broker di Wall Street sono stati sostanzialmente fronteggiati. Oggi la necessità di correre a nazionalizzare, che pure voci della nuova maggioranza al governo in Italia di tanto in tanto evocano, non sembrerebbe così impellente, nonostante il pessimo andamento dell’economia. Tuttavia, su questo terreno si misureranno le prossime scelte del governo che dovrà condurre verso il mercato Ita (l’ex Alitalia, per la quale c’è sul tavolo l’offerta di Lufthansa), portare il Monte dei Paschi in mani private come si era detto e ridetto, risolvere la questione dell’Ilva che sembra ormai sempre di più di pertinenza statale e dare una soluzione alla telenovela della rete unica di Telecom.

L'errore da evitare è in questo caso quello di far riferimento alla seconda parte della storia dell’Iri, quella più esposta alle critiche, posteriore al biennio 1956-1957 quando fu istituito – come racconta Franco Amatori in una conversazione con “Avvenire” – il Ministero delle Partecipazioni statali con annesso l’obbligo delle imprese pubbliche di destinare il 40% delle risorse al Mezzogiorno e la possibilità di far ricorso al cosiddetto “fondo di dotazione” per compensare la differenza tra i costi industriali e quelli aggiuntivi di carattere politico e sociale. Questa strada, sconfessata all’inizio degli Anni Novanta dall’intervento dell’Europa e dal peso di 73mila miliardi di lire di debiti, sarebbe la più sbagliata. Il pensiero corre alla Cdp, cioè la Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro, nata a metà Ottocento per finanziare le opere pubbliche e raccogliere il risparmio postale: è l’ente che più spesso viene associato a una “nuova Iri”.

In primo luogo, perché il suo portafoglio di partecipazioni negli ultimi dieci anni è cresciuto molto fino al punto di recuperare pezzi che lo Stato abbandonò negli Anni Novanta al tempo delle privatizzazioni. In secondo luogo, perché la holding del Tesoro, con un modello che spazia dalle navi alle telecomunicazioni, dal gas agli alberghi, fino alla Enciclopedia Treccani, rischia sempre di più di sembrare una conglomerata. È evidente che la politica non potrà contare più di tanto su una Cdp che faccia da ciambella di salvataggio mentre si può riflettere sul modello “centauro”, una holding pubblica nelle finalità e privata nel rigore gestionale come era nello spirito dei tecnici che fondarono l’Iri. Il concetto di impermeabilità del management alle pressioni dei governi di fronte alla necessità di far fronte alla crisi sarebbe il giusto corollario. Allora lo scudo dell’Iri di Beneduce e Menichella fu il criterio delle “mani adatte” e lo dimostrarono uomini come Oscar Sinigaglia (siderurgia), Ugo Gobbato (Alfa Romeo), Guglielmo Reiss Romoli (Stet) coadiuvati da economisti come Pasquale Saraceno, Sergio Paronetto e Guido Carli. Forse è questo il messaggio più forte che rimbalza da quel lontano 23 gennaio del 1933.

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