Questa è una storia assurda. Che, ancora una volta, spiega come nelle terre di mafia, le terre dell’illegalità, tutto sia più complicato. Qui il nero non sempre è del tutto nero, e il bianco spesso si deve sporcare. Per giustizia, per difendere dignità e umanità. È anche la storia, attuale ma frutto del passato, di Casal di Principe, paese casertano che ha dato nome – nome usurpato! – al clan camorrista dei 'casalesi', tra i più potenti, legati alla politica e all’economia.
Il paese di don Peppe Diana, il parroco ucciso proprio dal clan. Il paese di Renato Natale, medico degli emarginati, degli immigrati, delle prostitute. Amico di don Peppe, era sindaco quel 19 marzo 1994. Poi è stato tra i protagonisti della resistenza e della rinascita di questa terra. Dopo anni di impegno, di volontariato, di prima linea ad alto rischio (lo volevano uccidere come l’amico parroco), nel 2014 sceglie nuovamente il servizio ai cittadini. Si candida e viene eletto. Confermato nel 2019. Da subito denuncia la gravissima situazione edilizia. E non smette di farlo, inascoltato.
A Casal di Principe l’abusivismo edilizio è stato per decenni la normalità, favorito da camorra e politica collusa. Niente strumenti urbanistici, niente pianificazione territoriale, niente controlli. Ognuno fa da sé. Anche per necessità. Comunque, illegale. E giustamente la magistratura indaga e interviene. Sono ben 1.700 le ordinanze di abbattimento di costruzioni abusive, emesse nel corso di anni. Di queste, 250 sono Resa (Registro esecuzioni sentenze abbattimenti), cioè edifici da abbattere in via esecutiva. Abusi che non possono essere sanati. Lo dice la legge. Tocca al Comune agire. Natale lo fa con 11 edifici non finiti, scheletri di cemento monumento a illegalità e cattiva politica: farli sparire è costato 1 milione e 600mila euro. La norma prevede che queste somme vadano recuperate dai cittadini responsabili dell’abuso, ma non accade mai. Tutto pesa sul Comune. Per abbattere le 250 Resa, servirebbero circa 35 milioni di euro.
Una cifra che porterebbe Casal di Principe al dissesto economico. Ma ora le ruspe si avvicinano a case abitate. Domani si comincia con la casa dove vivono due giovani famiglie con quattro bambini tra 3 e 7 anni. Non criminali. E la legalità si scontra col diritto alla vita, che parte dal diritto a un’abitazione. Il sindaco non ci sta. Scrive a vari ministri. Spiega quanto costerebbe al Comune abbattere quelle case. Ma soprattutto si preoccupa dei suoi concittadini, abusivi ma non criminali. Si preoccupa dei bimbi che finirebbero per strada. E non si limita a protestare. Mette in piedi un progetto per utilizzare un edificio confiscato alla camorra per ospitare le famiglie in emergenza abbattimenti. Housing sociale, garanzia di un diritto non un 'regalo' visto che pagheranno un affitto. Una villa bunker, ovviamente abusiva e lussuosa, simbolo del potere del clan che diventerà ulteriore segno di cambiamento. Come le scuole ospitate in altre ville confiscate, come le attività realizzate da belle cooperative su terreni e fabbricati strappati al clan. Il sindaco protesta e fa. Ma chiede tempo. Cento giorni.
Lo chiede alla magistratura, lo chiede al governo. Non vuole vedere famiglie con bambini per strada. E non bara. In questi anni tutti lo hanno potuto vedere. Dal servizio rifiuti che funziona alle discariche bonificate, dalle scuole pulite e efficienti anche durante il Covid alla ristrutturazione dello stadio un tempo 'proprietà' del clan, dai finanziamenti pubblici finalmente utilizzati in modo trasparente, ai fatti concreti contro la camorra e per i diritti. Ma la Procura conferma il 2 settembre come data per la demolizione. Il sindaco si appella. Difende diritti e senso di umanità. Fa cioè il primo cittadino.
S’immerge nei problemi, si sporca le mani. I problemi si chiudono solo trovando soluzioni. Lui ci prova, e ci mette la faccia, come nella lunga battaglia dell’antimafia dei fatti. Fino a capire che, malgrado un coro di solidarietà, non gli rimane che il gesto forte e delle dimissioni. «Una scelta grave e sofferta », spiega, chiedendo «scusa ai quattro bambini per non aver saputo difendere adeguatamente il loro diritto a sorridere». C’è amarezza nelle parole del sindaco- medico che ha dedicato la vita alla difesa convinta di giustizia e diritti e che deve arrendersi all’applicazione gelida della legge. Ma si può essere certi che Renato Natale non si sta arrendendo. Ha resistito, vincendo, alla violenza camorrista. E neanche stavolta farà davvero passi indietro.