Se la guerra segrega il pane la pace dipende da ognuno
domenica 29 maggio 2022

Viviamo una tragica divisione fra popoli in lotta per la sopravvivenza e gruppi che hanno il problema della 'pasticceria'. Ne vogliamo prendere atto o ancora una volta tapparci occhi e orecchie per rifugiarci nel nostro standard di benessere, quasi vedendo nella guerra e in Vladimir Putin un nemico solo perché a essere minacciato è il nostro prevalente stile di vita? Si tratta, al contrario, di una minaccia alla libertà e all’autodeterminazione dei popoli.

E in quanto tale va radicalmente contrastata. Non disdegno i pasticcini, ma, nel momento in cui fossimo chiamati a consumarne meno credo che dovremmo tutti rinunciare ad alcuni prodotti voluttuari a favore della necessità di garantire il pane a chi rischia di morire di fame, partecipando così non solo mediaticamente ma nel quotidiano alla tragedia che si sta consumando davanti ai nostri occhi: una guerra, e una guerra di 'sopravvivenza'.

Per poter sdoganare le navi con il frumento il leader russo chiede che si alleggeriscano o addirittura si eliminino le sanzioni decise dall’Occidente. È un problema di sopravvivenza e soprattutto di coscienza. Pensiamoci oltre schemi e steccati. Questo dramma parla con forza speciale ai cristiani. Il gesto intorno al quale si riunisce la comunità credente è quello del pane spezzato. Un momento fondamentale della fede, ma è anche un gesto antropologico, sociale, politico, che ci vede radunati per una condivisione che tutti come battezzati (cattolici, protestanti, ortodossi, anche ucraini e russi) condividiamo nel giorno del Signore.

Possiamo continuare a partecipare a questo gesto mentre neghiamo il pane a chi ha fame, non i pasticcini a chi è sazio? E ancora: fra i segni della presenza del Regno di Dio nella storia, che denominiamo miracoli di Gesù, svolge un ruolo non marginale quello della 'moltiplicazione', non della 'sottrazione' dei pani. In un mondo di potenti che stanno segregando i cereali e quindi il pane, questo segno evangelico non dovrebbe essere letto anche in funzione sociale e non solo cultuale? Penso che il tema scelto per il Congresso eucaristico nazionale di Matera di settembre sia particolarmente significativo e rivesta una valenza geopolitica non indifferente: «Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa eucaristica e sinodale».

Ma forse dobbiamo fare un passo in più. E parlare della 'necessità' del pane, adottando la prospettiva di coloro a cui il pane manca. Ai sussidi di carattere liturgico pubblicati forse bisognerà affiancare, proprio alla luce del momento catastrofico che stiamo vivendo, un sussidio teologicopolitico, in modo che la celebrazione tocchi questo nostro tempo.

Uno spunto suggestivo in tal senso viene dalla citazione posta in esergo proprio al sussidio liturgico-pastorale, col richiamo al pensiero di un teologo russo che mi è molto caro: «La nostra vita quotidiana deve essere 'Eucaristia', movimento di amore e di adorazione verso Dio, il movimento in cui unicamente può essere rivelato e adempiuto il significato e il valore di tutto ciò che esiste. Sappiamo di aver perduto questa vita eucaristica e che, nel Cristo, il nuovo Adamo, l’uomo perfetto, la vita eucaristica fu restituita all’uomo. Perché Egli stesso fu la perfetta Eucaristia.

Egli offrì se stesso in totale obbedienza, in totale amore e rendimento di grazie a Dio. Dio era la sua vera vita. Ed egli diede a noi questa vita perfetta ed eucaristica. In lui, Dio divenne la nostra vita. E perciò questa offerta a Dio del pane e del vino, del cibo che noi dobbiamo mangiare per vivere, e? la nostra offerta a lui di noi stessi, della nostra vita e del mondo intero. Questa e? la nostra Eucaristia » (A. Schmemann, Il mondo come sacramento ).

L’azione paradigmatica, come direbbe Maurice Blondel, è quella eucaristica, per cui non si tratta solo di un momento ma del fatto che la vita del cristiano è eucaristica o non è. La sfida della guerra ci chiama al ritorno all’essenziale e quindi alla necessità, come singoli e comunità, della 'rinunzia' o del 'sacrificio', a cui non siamo affatto educati. In tal senso la guerra ci educa, nostro malgrado, spingendo ciascuno – e la pace parte dal cuore delle persone – verso scelte in cui vadano abbandonate comodità superflue per vivere una povertà che, lungi dal confondersi con la sciatteria, si identifica con la sobrietà.

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