Via dall’Afghanistan, tutti a casa? La bozza di accordo raggiunta tra gli Usa e i rappresentanti dei taleban porta a pensare proprio questo, anche perché la condizione che gli "ex terroristi" (e vedremo tra poco perché questa definizione) ponevano per parlare di pace è sempre stata, appunto, il ritiro totale delle truppe straniere. Così, dopo 18 anni di campagna, 120mila morti afghani (dei quali oltre 30mila civili), 3.500 soldati Nato caduti sul campo (tra i quali 54 italiani), 1.700 contractor uccisi, 300 cooperanti massacrati e 1.000 miliardi (dei quali 10 italiani) spesi per mantenere laggiù la presenza militare internazionale, il sogno di allontanare il Paese dalle follie del mullah Omar e dal sottosviluppo e avvicinarlo agli standard di una società più umana e moderna si spegne così. Per stanchezza.
Gli Stati Uniti, protagonisti della svolta, applicano ancora una volta la strategia elaborata da Henry Kissinger ai tempi del Vietnam: dì che hai vinto, e vieni via. Alla loro decisione concorrono soprattutto due elementi. Da un lato, la presa d’atto che quasi vent’anni di impegno militare, economico e diplomatico non hanno portato i risultati sperati.
I taleban controllano oggi quasi più territorio di quanto ne controllavano nel 2001, quando subirono la reazione occidentale di fronte agli attentati delle Torri Gemelle e alla loro collaborazione con al-Qaeda. Il Governo afghano è impotente, le stragi si susseguono, nessun progresso decisivo pare alle viste. Dall’altro lato, il progressivo disimpegno americano da tutti i fronti che l’amministrazione Trump considera troppo costosi o non decisivi. Oggi l’Afghanistan, solo ieri il Rojava e i curdi di Siria.
Si sa che le potenze non hanno ideali, ma solo interessi. Tutti dobbiamo chiederci, però, che cosa sarà degli afghani il giorno in cui il contingente internazionale dovesse fare armi e bagagli e abbandonare Kabul. Ed è qui che interviene la definizione, "ex terroristi", che abbiamo usato prima. La trattativa con gli Usa, infatti, nobilita i taleban, li eleva al rango di una forza militare, di un nemico ufficiale.
Mentre noi sappiamo che i taleban non sono solo gli ex complici di al-Qaeda ma sono tuttora dei terroristi in servizio permanente effettivo, come le bombe e i kamikaze degli ultimi mesi dimostrano. Oltre a questo sappiamo che i loro maneggi con la coltivazione di oppio e il traffico di droga non sono mai cessati. E che il loro spirito odierno non è molto diverso da quello dei padri se hanno già annunciato l’intenzione di inserire nella Costituzione un esplicito riferimento alla sharia al posto dell’attuale e blanda menzione della "legge islamica" quale fondamento per la legislazione civile.
Come se non bastasse, i loro rappresentanti hanno preteso che dalle trattative fosse escluso il Governo afghano, scavalcato da tutti e informato dagli alleati occidentali solo a cose fatte, o quasi. A fronte di tutto questo i taleban si sono solo impegnati a condurre, una volta ritirati gli occidentali, una generica lotta contro i residui di al-Qaeda e le insidiose milizie del Daesh. Hanno cioè promesso di combattere i rivali che combattono già oggi e che avrebbero combattuto comunque. E quindi: come dovrebbe sentirsi un afghano? Quali dovrebbero essere i suoi sentimenti? Molti ambiziosi progetti occidentali sono falliti, come già detto. Ma non ci sono in ballo solo le grandi e nebulose strategie.
Che sarà, per esempio, della lotta contro i matrimoni forzati delle bambine che in questi anni, con sforzi enormi, erano stati ridotti del 10%? E della scolarizzazione dei bambini, che per metà (cioè 3,7 milioni di futuri cittadini) ancora non possono andare a scuola? Che diremo alle ragazze, alle infinite Malala di cui non sappiamo il nome, nell’85% dei casi private dell’istruzione e delle speranze che essa porta con sé proprio nelle zone già ora controllate dai taleban? Sarà ancora permesso, nell’Afghanistan ri-talibanizzato, fare qualcosa per abbassare il tasso di mortalità materna e infantile, oggi ancora tra i più alti al mondo? Le Ong e le organizzazioni internazionali avranno ancora libero accesso per portare un po’ di sollievo alla popolazione che soffre? Quanti libri non approvati dalle scuole coraniche circoleranno nel Paese?
È vero, l’Afghanistan è il Paese che ha ricacciato tutti, da Alessandro il Grande agli imperialisti inglesi agli invasori sovietici. Questo però non cancella le responsabilità che comunque ci siamo assunti nel 2001, quando promettemmo a un intero popolo che qualcosa sarebbe cambiato. Magari non tutto e nemmeno molto, ma per sempre.