venerdì 7 marzo 2014
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Le banche italiane hanno un problema tanto semplice quanto grave. Hanno prestato denaro a imprese e famiglie che non sono in grado di restituirglielo. Non c’è un colpevole preciso, almeno nella stragrande maggioranza dei casi: né gli istituti di credito né i loro clienti potevano immaginare che la crisi economica iniziata nel 2007/2008 sarebbe stata così lunga e profonda. Invece le cose sono andate molto peggio di quanto si potesse prevedere e le sofferenza bancarie, cioè i crediti concessi a soggetti che si sono rivelati insolventi, sono esplose: erano 78 miliardi di euro nel 2010, sono salite rapidamente fino ai 155 miliardi di euro di fine 2013. Se si considerano anche i crediti incagliati, quelli ristrutturati e quelli sconfinati o scaduti, i prestiti "deteriorati" delle banche italiane ammontano a 274 miliardi di euro. Cioè il 16% dei crediti concessi, tra i livelli più alti in Europa. È un problema delle banche, ma è un problema anche nostro. Perché, soffocati da questa montagna di prestiti che ha poche speranze di essere rimborsata, gli istituti di credito hanno smesso di finanziare l’economia nazionale. Sono 18 mesi consecutivi che le banche riducono il credito: dai quasi 1.700 miliardi di "impieghi al settore privato" di gennaio 2012 siamo scesi ai 1.591 miliardi del primo mese di quest’anno.
Dopo diversi mesi passati ad aspettare che questo problema si risolvesse più o meno da solo (magari grazie a una ripresa "vera"), le banche, la Banca d’Italia e il governo hanno deciso di tentare di risolverlo attraverso una soluzione già adottata altrove negli ultimi anni: la "bad bank". UniCredit e Intesa Sanpaolo ne stanno studiando una "comune" assieme al fondo americano Kkr. Mediobanca ne sta preparando un’altra da mettere a disposizione di tutto il sistema. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dal convegno Assiom Forex dell’8 febbraio ha incoraggiato queste iniziative, quindi ha avanzato la possibilità di progetti «più ambiziosi» e alla fine, in un’intervista concessa dal G20 di Sidney, ha ammesso che sta lavorando esplicitamente a una «eventuale assistenza pubblica, sotto forma di garanzie o altro». Ieri, dalle pagine del Sole 24 Ore, Pier Carlo Padoan nella sua prima intervista da ministro dell’Economia, ha fatto capire che il Tesoro ci pensa: «Potrebbe essere uno strumento utile. Ma è presto per dire di più». Non c’è bisogno di essere dei grandi complottisti per farsi prendere dal sospetto che, non contenti delle bacchettate europee sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia, i nostri governanti stiano confezionando un altro "regalo" alle banche. Stavolta direttamente a spese dei contribuenti. Può essere, ma non è detto. Una bad bank è una banca "cattiva", o più correttamente di "cattiva qualità", che compra i prestiti problematici dalle banche "buone" aiutandole a fare pulizia nei loro bilanci. È una buona soluzione? «Dipende dalla circostanze», come ha risposto ieri ai giornalisti un lapalissiano Mario Draghi. Non si poteva pretendere un’opinione più dettagliata dal presidente della Banca centrale europea, perché ancora non sappiamo nemmeno a grandi linee come saranno costruite – se mai lo saranno – queste bad bank italiane. Le variabili sono tante.
La casa di consulenza Boston Consulting, che ha collaborato alla realizzazione di bad bank in altri Paesi, ha recentemente condotto uno studio approfondito sulla possibilità di una bad bank italiana, e ha individuato almeno sei scelte fondamentali da fare. Primo: una bad bank può essere creata per gestire i crediti di una sola banca, quelli di più istituti o quelli di un intero sistema finanziario. Secondo: deve decidere che tipo di crediti deteriorati compra. Terzo: può comprarli al prezzo originario o a un prezzo di mercato (la differenza è naturalmente enorme). Quarto: le banche "buone" devono decidere come ricapitalizzarsi per assorbire la svalutazione del loro patrimonio se la cessione dei prestiti avviene a prezzi di mercato. Quinto: c’è da decidere quanto capitale deve avere, questa bad bank. Sesto: la bad bank ha bisogno di qualcuno che "le metta i soldi dentro". È evidente che quest’ultimo è l’elemento fondamentale. Le perdite delle banche sui prestiti fallimentari non evaporano. Quindi o sono gli stessi istituti a farsene carico accettando pesanti svalutazioni sui prestiti deteriorati ceduti alla bad bank o è la bad bank che si compra le perdite con i soldi di chi l’ha finanziata. Se il finanziatore è lo Stato, allora è corretto dire che il governo usa i soldi dei suoi cittadini per dare una bella mano alle banche.
Nei casi di bad bank europee degli ultimi anni, lo Stato si è sempre preso una fetta delle perdite, o almeno del rischio di perdite. Le bad bank sono state create quasi sempre con fondi delle banche salvate, ma con dietro la garanzia pubblica, e hanno comprato i crediti a prezzi ridotti: in media attorno al 50% del valore nominale. La Germania nel 2009 ha messo la sua garanzia da 250 miliardi di euro sul fondo che ha salvato Hypo Real Estate per fermare un’emorragia di panico finanziario. Sempre nel 2009, l’Irlanda ha dovuto chiedere il salvataggio della "troika" (Ue, Bce e Fmi) per mettere la sua garanzia da 70 miliardi di euro sulla bad bank Nama, che ha evitato il collasso del sistema bancario nazionale. La Spagna ha chiesto all’Europa un aiuto da 30 miliardi per finanziare il "banco malo" Sareb che ha salvato le Casse di risparmio travolte dalla bolla immobiliare. Sono state tre esperienze che oggi possiamo definire positive: le garanzie di Stato non sono state riscosse e vendendo pezzi di credito deteriorato la bad bank di Berlino ha incassato 173 miliardi in circa un anno, quella di Dublino 71,2 miliardi in due anni e mezzo e quella spagnola 90 miliardi in un anno. Non è troppo azzardato ipotizzare che, alla fine dei conti, in questi tre casi i contribuenti non ci perderanno.
Il caso italiano è diverso. Intanto perché di solito le bad bank sono state imposte – dalle autorità di vigilanza, dall’Europa – mentre da noi per il momento stiamo parlando di progetti spontanei (e nel caso di UniCredit e Intesa è stato assicurato che non si chiederanno aiuti pubblici in nessuna forma) e comunque non resi indispensabili da un’urgenza improvvisa. Non c’è una bolla pronta a esplodere, all’origine della bad bank italiana, ma uno stallo creditizio che prosegue da un anno e mezzo. Sicuramente uscirne è un problema di interesse nazionale. Ma è giusto chiedere ai cittadini di usare e rischiare i loro soldi, anche solo come "garanzia", per aiutare le banche a risolvere il nodo che è all’origine di questa situazione? E possiamo permetterci di non intervenire affatto e quindi accettare di cercare un’inedita ripresa "senza banche"? I dubbi leciti sono tanti. Si spiegano così la cautela di Padoan e quel "dipende" di Draghi, che oggi è a capo della Bce, ma che era direttore generale del Tesoro quando, nel 1997, il ministero costruì una "bad bank" per salvare il Banco di Napoli. Si chiama Società gestione attività ed è ancora operativa: ha comprato crediti in sofferenza per 13mila miliardi di lire, in quindici anni è riuscita a recuperare l’85% di quella somma.
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