sabato 25 gennaio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Ciò che ci dice il coraggio di un giovane Ne hanno parlato. E riparlato. E twittato, e postato su Facebook. Perché il fatto di un ragazzino di 14 anni che si butta contro un kamikaze (di 20...) e, così facendo, salva la sua scuola dall’attentato ha fatto scalpore. E ha commosso. Dal Pakistan è rimbalzato in tutto il mondo. Senza perdere forza con il passare dei giorni. Anzi, evaporata l’emozione del momento, si può valutare meglio quel gesto. E la figura di Aitzaz è divenuta un piccolo grande mito. Un orgoglio per suo padre e per la madre (e un immenso dolore), un esempio per la parte della nazione che non vuole la guerra maledetta e fratricida.
Ma per noi, dopo lo scalpore e la prima commozione, cosa significa adesso il piccolo Aitzaz? Occorre guardare bene. Perché sulla scena ci sono lui e il kamikaze. La scena della guerra e della violenza moderna è stata a lungo lugubremente occupata dalla figura del kamikaze. Triste e imprendibile figura che ebbe fulgore sinistro durante la Guerra mondiale (i più noti furono i giapponesi) e poi è tornata alla ribalta – almeno in una porzione di mondo che è anche la nostra – per la escalation di orrendi attentati di matrice islamista. Sembra quasi che nessun esercito, nessuna polizia riesca a rubare la scena al kamikaze, emblema moderno della distruzione. Invece la scena gliel’ha rubata lui, il ragazzino di 14 anni. Quello che non è un idolo musicale dei teenager. Quello che non ha niente di speciale se non quell’atto, quella decisione. Di andare contro al kamikaze. Di rubargli la scena, di togliergli l’ultima parola.
Lì, sulla strada antistante alla scuola di Aitzaz, dove ci sono altri ragazzi che per paura (qualcuno vorrà condannarli per questo?) se ne scappano. Invece Aitzaz no. E la sua decisione ci riguarda. Perché ognuno di noi si trova mille volte al giorno in situazioni analoghe. Ovvero con la possibilità di andare contro la potenza che vuole distruggere, oppure no. Ci sono kamikaze senza bombe intorno a noi e dentro di noi. Pretendono di avere l’ultima parola – distruttiva, cinica – sull’esistenza. Magari, come spesso i kamikaze degli attentati, perché a nostra volta feriti, addolorati, colpiti da un torto. Cedendo a una cupidigia distruttiva. Come se tutto fosse destinato a perire. Forze che tendono a lasciar cenere, a rovinare. A far prevalere la distruzione come metodo di vita, anche a costo dell’autodistruzione. A volte basta poco, una chiacchiera, una osservazione velenosa, una mortificazione. Un piccolo esercizio di potere, una malignità. Mille, centomila kamikaze in noi e intorno a noi pronti a esplodere le loro piccole o grandi bombe di malignità. Di odio. 
Dobbiamo sempre scegliere se essere Aitzaz o il kamikaze. Sempre. Il grande Ungaretti diceva che si deve sempre amare, anche errare, ma odiare mai. Il gesto di Aitzaz è esemplare o non ci serve a nulla. Così come nei territori dove la guerra è visibile spesso subentra la disperazione, la rassegnazione di vedere che odio e guerra hanno l’ultima parola, anche qui, dove la guerra è invisibile ma c’è, si rischia di consegnarci a una rassegnazione. Di lasciare l’ultima parola al kamikaze e alla sua malora. Il fatto che un ragazzetto abbia rubato la scena (e a che costo) al protagonista contemporaneo dell’odio e della distruzione ci spinge a fare altrettanto.
Ora non abbiamo più scuse. Non saranno i sistemi di polizia, non saranno congegni perfetti di protezione o gli inviti sempre più fitti alla regolamentazione che salvano il mondo dalla malora e dalla distruzione. I 'Pakistan' dei nostri quotidiani luoghi di lavoro e impegno, dei nostri amori e dei nostri rapporti, hanno bisogno di qualcuno che rubi la scena – ovunque – ai kamikaze.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: