sabato 8 ottobre 2011
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Nelle difficoltà ci sono quelli che si lamentano. E hanno ragione da vendere, sicuro. E ci sono quelli che proclamano. E hanno ragione da vendere, come no. Alcuni poi si lamentano e proclamano unitamente. Nei momenti di crisi quasi tutti poi reclamano. Ma a tutti costoro io preferisco quelli che nelle difficoltà cantano. Non perché siano ubriachi o ingenui. Potrebbero lamentarsi, e avrebbero ragione. Oppure stendere proclami, e li applaudirebbero. Invece no, questi cantano. L’ho pensato qualche sera fa, al concerto in Auditorium di Roma del maestro cantore di musica popolare Ambrogio Sparagna con Francesco De Gregori suo ospite. Un successo, ma dal sapore speciale. In tempi di crisi e di lamenti e proclami, sentire affiorare in canti nuovi e antichi la energia della preghiera, del lavoro, del cammino è più salutare di mille esortazioni. Le canzoni del repertorio popolare fatte rivivere da Sparagna e dai suoi mirabolanti coro e musicanti e certe atmosfere di un cantautore di pregio hanno fatto toccare con il cuore di che impasto è fatta la vita, di che crisi siamo capaci e di che speranze. Di che sofferenze e di che generosità. Di che amore. Nelle difficoltà la cosa peggiore è intorbidire i cuori. Avvilirli. Accade così che molti comprensibili lamenti, molti condivisibili proclami ottengano solo una maggiore ombra. Invece che strano, duro nitore proviene da queste canzone nostre, piene di pianto e di cammino, di nostalgia e di fatica. Piene di preghiera o di emblemi di speranza, come in quel punto cantato dal coro e a orchestra piena in cui il cantautore romano ricorda i bombardamenti in san Lorenzo, quando tutti scapparono e invece il Papa, l’unico, come un «angelo con gli occhiali» allargò le braccia in preghiera tra la gente. Preferisco quelli che cantano. A coloro che proclamano e si lamentano, preferisco chi soffre spera e canta. Quelli che non dicono cose "intelligenti" sulla crisi (causata guarda un po’ da quelli che dicevano un sacco di cose "intelligenti" fino a ieri). Preferisco quelli che serrano i denti e cantano. E che magari dai signori del potere o dell’economia in questo momento vengono trattati come gente poco seria. Che pensa a cantare. Ma se un popolo smette di cantare non è in crisi, è già morto. In mezzo a tutti i consigli – più o meno interessati – che vengono dati al Governo in questi giorni da un sacco di gente che si lamenta e che proclama, io mi permetto di darne solo uno: signori ministri, mandate in giro Sparagna, De Gregori e quelli come loro a cantare, nelle scuole, nelle piazze, nelle chiese, dovunque la nostra gente ha bisogno di ritrovare lena e risorse. Se non ci sono i soldi, fateli cantare e in cambio fateli senatori a vita o qualcosa del genere. O inventatevi che accanto ai senatori a vita ci debbano essere, che so, dieci cantori a vita. Se l’Italia non canta più significa che abbiamo perso tutto. E intendo quelle canzoni semplici, nate tra i monti o i casolari, o su vie lontane da casa, o ricordando una donna o una festa di patrono. Si sa, le pur geniali combinazioni o depressioni o trovate di un cantante possono essere canticchiate da tanti e avere grande successo, ma non muovono un popolo. Un canto popolare, nato nel cuore comune dell’Italia, fatto di preghiera, amore, lavoro, ecco cosa può nella crisi aiutare più di cento lamenti o proclami. Tra l’altro, se si vuol stare a ridosso dell’attualità, i canti popolari di tutta Italia parlano in mille lingue diverse un linguaggio comune. Mostrano una difformità di stili e di voci entusiasmante dentro una unità di temi, di beni, di storie comuni. Un ethos comune, più di qualsiasi unione o divisione burocratica o amministrativa.
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