martedì 20 maggio 2014
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Quale che ne sia l’esito, il "putsch" contro le formazioni legate ad al-Qaeda messo in atto nelle ultime ore dal generale libico Khalifa Haftar in Cirenaica e in misura minore a Tripoli è la più lampante dimostrazione del fallimento del radicalismo di impronta islamica. Per comprenderlo meglio, dobbiamo allargare lo sguardo al di là della nostra vecchia Quarta Sponda, il cui complesso caleidoscopio di rivalità tribali, di mai sopite spinte secessioniste, di guerre per bande e, soprattutto, l’assenza di una classe politica e di una società civile degne di questo nome rendono ogni giorno più incerta l’evoluzione in senso democratico. Dobbiamo cioè abbracciare l’intero arco delle primavere arabe per scoprire – ed è una squillante evidenza – come in tre anni queste rivoluzioni nate dal basso e da un autentico bisogno di democrazia, di modernità, di libertà di pensiero siano state crudelmente tradite dall’irrompere sulla scena di attori di secondo piano come i Fratelli Musulmani o addirittura di comprimari dietro le quinte, come i radicali islamici di impronta qaedista. Bastevoli tuttavia a snaturare quello che nelle piazze della Mezzaluna – dal Cairo a Tripoli, da Bengasi ad Aleppo, da Tunisi fino alla laica Istanbul – andava fervendo. I risultati sono sotto i nostri occhi: caduto Hosni Mubarak in Egitto, la prima elezione democratica all’ombra delle piramidi assegnava a Mohammed Morsi la guida del Paese, un potere che il leader dei Fratelli Musulmani dissipava in una scellerata conduzione tribal–familistica, esautorando ogni voce critica e portando il Paese al collasso economico e sociale. La reazione della piazza (mercé anche l’interessato sostegno di varie cancellerie, non solo occidentali) ha riconsegnato l’Egitto a un militare, il generale al-Sisi, che fra una settimana verrà plebiscitariamente eletto presidente, perpetuando – in piena continuità con Sadat e Mubarak – la tradizione dei padri-padrone arabi con le stellette. Nel frattempo i Fratelli Musulmani sono stati messi (meglio: ri–messi) fuorilegge, centinaia di militanti condannati e lo stesso Morsi è a rischio di esecuzione capitale. Anche Bashar al-Assad verrà rieletto a giugno con una messe di suffragi: la rivoluzione siriana è fallita, l’insurrezione ha perduto. Ultimo in ordine di tempo è apparso sulla scena il generale Khalifa Haftar, vecchio arnese del regime di Gheddafi con formazione militare nell’Unione Sovietica, poi in rotta con la Jamahiriya, quindi ospite di riguardo degli Stati Uniti e dopo vent’anni di esilio eccolo di nuovo in patria nel 2011 all’indomani della rivolta scoppiata a Bengasi, anche se al Consiglio nazionale di transizione la sua figura ambigua (e soprattutto l’irriducibile rivalità con l’amatissimo generale Younes, ucciso poi in circostanze misteriose) non ha mai convinto. Allo stato delle cose non possiamo dire se Haftar diventerà l’uomo forte di una Libia che fatica a incamminarsi sulla strada della democrazia: di sicuro non dispiace al collega egiziano al–Sisi e (in modesta e prudente misura) anche al Dipartimento di Stato americano. Non sfugge che gli esiti infelici di queste primavere hanno un’origine comune: la reazione al radicalismo islamico che ha soffocato l’originaria promessa di democrazia e reso quasi inevitabile il ricorso (o il ritorno) all’uomo forte, con o senza le stellette. È accaduto perfino in Turchia, dove la scintilla di rivolta di Piazza Taksim del 2013 ha provocato il giro di vite da parte del governo, tradendo abbondantemente quell’islamismo moderato che per tre elezioni consecutive era stata la carta vincente del premier Erdogan. In molti si domandano oggi se la via democratica come noi occidentali la intendiamo sia preclusa al mondo islamico. La risposta secondo noi è, no, non è affatto preclusa. La Tunisia lo sta dimostrando: unico fra tutti gli attori delle primavere arabe, nonostante l’ingombrante presenza del partito islamista Ennhada ha saputo darsi una Costituzione che sancisce la parità di diritti fra uomo e donna, che proibisce la tortura, che contempla la libertà di coscienza e la sostanziale messa al bando della sharia e assegna allo Stato il ruolo di garante di queste libertà. Una vera rivoluzione – questa –, un modello possibile per tutto il mondo islamico, nella sua lenta e spesso tragica transizione verso il proprio futuro.
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