mercoledì 26 gennaio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
In mezzo al tormentone di questi giorni, e tra tante cose torbide, altre oscure, e altre che si chiariranno, ci sono alcune evidenze che interrogano tutti. Intendo alcune cose che non riguardano immediatamente il risvolto politico della faccenda o dell’uso che di essa si fa. La prima evidenza è che lo scopo di Ruby è riuscire nella vita. Come quello di tante ragazze della sua età, e come quello di tanti di ogni età. Riuscire, ovvero ottenere una vita coronata da successo e benessere. In effetti, questo è il medesimo lo scopo che sembrano avere in tanti. Il medesimo. Se ci guardiamo intorno – e se ci guardiamo dentro – spesso il motore più o meno evidente che spinge azioni, scelte, carriere, è il medesimo: riuscire, ovvero avere benessere, e possibilmente fama.In genere, i moralisti di ogni razza, quelli sempre pronti a scagliare la prima e anche la seconda pietra, a questo punto dicono: va bene, lo scopo è la riuscita come soldi e successo, ma c’è modo e modo per ottenerli. Modi più "morali" e modi meno morali. Non è del tutto sbagliato, ovvio. Anche i modi contano, nella vita come nella politica. Ma intendiamoci. E non dimentichiamo che la grande immoralità, la grande sconcezza, sta prima. Sta nell’avere quello scopo nella vita. La radice profonda dell’immoralità sta nell’avere come scopo della vita quel genere di riuscita, che accomuna le ragazze come Ruby a tanti magari "seri" professionisti in ogni campo: più benessere, più gloria. Una certa idea limitata di riuscita (aver soldi, aver fama) si è imposta nel tempo lungo le vie delle filosofie e delle mode come la migliore e forse unica possibile. Come se gli uomini più realizzati fossero quelli che possono contare su benessere e fama. Una certa idea di "divo" – messa a fuoco nei secoli da pensatori e esaltata nei mezzi di comunicazione di massa – è diventata il modello normale. Per tutti o quasi, non solo per ragazze portate dalla vita e da scelte infami a svendere la propria dignità per ottenere prima che si può quel genere di riuscita.C’è meno infamia apparente, c’è meno apparente immoralità in molte scelte che tutti compiamo tutti i giorni in nome di quell’ideale di riuscita. Ma solo meno apparente. Quante ipocrisie, omissioni, tiepidezze, o quanti geli di indifferenze regolano i nostri rapporti quando sono vissuti come mezzi per ottenere quella riuscita? Gli antichi, e un poeta vasto e profondo come Eliot, invitavano a «rendere perfetta la nostra volontà». Ovvero a desiderare per la vita una riuscita che non si limitasse a taluni aspetti o ne esaltasse alcuni come totalizzanti. L’esperienza ci insegna a volte in modo drammatico come il raggiungimento di un ottimo benessere o di una grande fama non coincidono con una vera "riuscita" della personalità. In molti uomini di successo si vede la triste grottesca maschera di qualcosa di disumano. Per i cristiani – che in tutte le messe battono il proprio petto e non quello del vicino o del potente o della prostituta – lo scopo della vita è meritare il centuplo quaggiù e una speranza per l’eterno. Qualcosa di incommensurabile con ogni benessere o successo (spesso negati o impossibili).Per noi l’uomo riuscito non è il divo, ma anche chi, magari gravemente colpito dalla vita, merita cento volte gioia e speranza grazie a un atteggiamento volto a compiere il desiderio di bene e di giustizia che alberga in ogni cuore. Ci sono santi sconosciuti, uomini ignoti che compiono le dimensioni del cuore, donando se stessi, cercando il vero, offrendo con pazienza la vita per il bene anche degli altri. E sono imprenditori e suore, medici e contadini, preti e attori, operai e musicisti... Questi sono i "riusciti". Proporre e accettare invece l’altro modello di riuscita, e poi accusare di immoralità chi cerca di raggiungere (anche in modo pietoso e grottesco) quel modello, è la vasta immoralità diffusa nei nostri giorni.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: