giovedì 27 novembre 2008
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Da qualche tempo a questa parte gli scenari dell'economia divenuti drammatici evocano ricorrentemente il "fantasma" del crack di Wall Street del 1929. La maggior parte di quanti operano questo accostamento mostra tuttavia di avere una conoscenza estremamente superficiale della crisi del 1929 e delle sue conseguenze, che non furono soltanto economiche ma anche e soprattutto politiche, con il rafforzamento, tanto in Russia quanto in Germania e in Italia delle forze politiche le quali ritenevano inevitabile, in un contesto di crisi, la centralizzazione dell'economia e l'instaurazione di "governi forti". L'avvento al potere di Hitler si verificò su questo sfondo e ha rappresentato forse la conseguenza più inquietante della crisi del 1929. Tutto fa ritenere che (indipendentemente dalle conseguenze economiche) le conseguenze politiche della nuova crisi del 2008 saranno meno gravi, anche se la matura coscienza democratica dovrà attentamente vigilare perché questo pericolo sia sventato. Vi è tuttavia un'altra conseguenza della crisi che accomuna il 1929 al 2008 ed è la riemergenza di modelli comunitari, il "perenne ritorno" dell'idea di comunità. Proprio a partire da un viaggio negli Stati Uniti negli anni del crack, Adriano Olivetti cominciò ad elaborare la sua idea di "comunità"; sull'onda delle drammatiche ripercussioni della stessa crisi, Emmanuel Mounier in Francia dava alle stampe la sua Rivoluzione personalista e comunitaria (il maturo Jacques Maritain, in Umanesimo integrale del 1936, indicava le vie di un possibile superamento del vecchio modello capitalistico); in Germania, nella scia della rivalutazione della "comunità di persone" operata da Max Scheler, il giovanissimo Dietrich Bonhoeffer dava alle stampe un'opera, Sanctorum communio, in cui il tema della comunità era ripreso tanto in ambito ecclesiale quanto sul piano sociale. Anche nell'Occidente del "capitalismo maturo" (e non solo in esso, se si pensa al contesto indiano di formazione di Amartya Sen) è da qualche anno in atto un forte "risveglio comunitaristico", quale si è espresso in movimenti "neo-comunitari" vivacemente presenti nell'America del Nord, soprattutto con Charles Taylor ed attivamente operanti anche in Italia, con Stefano Zamagni ed economisti che si pongono nella sua stessa linea. La crisi del 2008 può essere considerata il punto di non ritorno di un certo modello di capitalismo? Quali prospettive si aprono alle culture neo-comunitarie che propongono un modello alternativo di produzione e soprattutto di lavoro? Da molti segnali emerge l'acuta insoddisfazione per un modello di sviluppo che non solo ha condannato al sotto-sviluppo vaste aree del mondo ma ha dato luogo ad una forte disumanizzazione del lavoro e dell'intero processo produttivo: dietro l'"economia cartacea" della "finanza creativa" (ma in realtà distruttiva) si staglia il profilo dell'aspirazione ad una "economia reale" che ripristini il naturale rapporto tra il sistema produttivo e le strutture che lo rappresentano (che dovrebbero rappresentarlo); un'economia reale all'interno della quale la centralità del lavoro, vera struttura portante della Dottrina sociale della Chiesa dalla Rerum novarum alla Laborem exercens, ed oltre, dovrebbe essere riconosciuta e salvaguardata, anche attraverso l'immissione nei processi produttivi del grande "soggetto assente", e cioè di quella persona umana, di cui le correnti neo-comunitaristiche intendono farsi promotrici ed assertrici. Che sia giunto il momento in cui l'eminente dignità del lavoro possa prendersi la rivincita su un'assolutizzazione del profitto che ha chiaramente rivelato tutti i suoi limiti?
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