mercoledì 22 giugno 2011
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Gli slogan "fanno titolo", ed eccolo bello e pronto: "L’Italia non è un Paese per giovani". Ma la materia è troppo delicata per essere ridotta a slogan, si rischia di penalizzare la complessità di fenomeni sociali sui quali è invece doveroso interrogarsi. Per una curiosa coincidenza ben tre organismi di provata credibilità hanno nella mattinata di ieri "detto la loro" sulla questione giovanile in Italia. E il quadro che ne emerge presenta diverse sfaccettature, ma soprattutto molti interrogativi.Di "presentismo" parla il Censis, inteso come una sorta di gabbia in cui le giovani leve nazionali si sentono costrette, faticando a intravvedere il proprio futuro e ancor più a costruirlo. In tale ottica la scuola perde progressivamente importanza e significato, rimane un peso ma sempre meno un investimento ragionevole. E se "Save the children" mette sul piatto una quota di abbandono scolastico tra i 18 e i 24 anni pari al del 18,8% nel nostro Paese (la media europea è di poco superiore al 14, obiettivo il 10% entro il 2020), la Fondazione Migrantes ha quantificato in 17 mila unità il piccolo esercito di studenti italiani che nell’anno scolastico 2008/2009 hanno lasciato le aule patrie per recarsi all’estero, ai quali vanno aggiunti 1600 giovani lavoratori tirocinanti. Che c’è di male, vien da chiedersi, anzi. Il gelo cala qualche riga dopo: vivere in Italia è considerato una sfortuna da quasi il 40 per cento di quei giovani e oltre la metà degli intervistati nell’ambito del VI Rapporto sull’emigrazione vorrebbe andarsene. Precarietà, corruzione, criminalità, condizione economica. Queste le pecche che più pesano, che fanno desiderare di prendere il volo. Altro che bamboccioni.Davvero non c’è spazio né speranza per i nostri figli? Davvero un futuro da bohémiens tra Parigi, Londra e Berlino o come dj fricchettoni su qualche spiaggia esotica è più ragionevole di un modesto e onesto primo impiego precario o di un piccolo tentativo imprenditoriale a due passi da casa? C’è tanta retorica e tanta fantasticheria nel disegnare il proprio futuro in una diversa dimensione. L’altro, l’oltre e l’altrove sono sempre più attraenti del qui e ora. Certamente più prodighi di promesse, probabilmente meno impegnativi.Ma gli interrogativi qui si fanno stringenti e investono l’intera società che produce giovani sfiduciati e rinunciatari, sognatori (come sempre, e per fortuna) ma incapaci di prefigurarsi un realistico futuro. Genitori, educatori, economisti e politici, tutti alla sbarra. Quali modelli siamo in grado di offrire? Si piange da tempo sui cervelli in fuga, giovani ricercatori e scienziati in erba costretti a coltivare all’estero le proprie capacità, su artisti incompresi sbocciati sui palcoscenici stranieri. E’ la globalizzazione! Sì, ma non solo. Non sarà che la perdita di valori e radici forti (anche questo denunciano i "rapporti" sopra citati) stia minando le basi della società futura? Non sarà che le scarse prospettive occupazionali stiano facendo abbassare la testa a coloro che si devono accontentare di un lavoro precario oggi (e domani), versando anche i contributi per pensioni che forse incasseremo noi (grazie) e che loro non vedranno mai? Non sarà che una politica ripiegata su se stessa in sterili contrapposizioni e squallide esibizioni stia facendo appassire i rami più verdi e fragili di quell’albero solido e multiforme, in continua crescita, che dev’essere una nazione, una società civile?Come tutti i cuccioli, i giovani uomini si guardano intorno, fiutano l’aria, poi prendono la loro strada. E vanno dove si sentono accolti e valorizzati. Più volte i vescovi italiani hanno invitato ad offrire una prospettiva diversa, il cardinale Bagnasco ha fatto appello a uno sguardo nuovo sul presente e sul futuro. Sentirsi risorsa e non problema, ecco che cosa può far scattare in un giovane che si affaccia alla vita sociale la scintilla dell’impegno personale. Per se stesso, con famiglie vere alle spalle e nella prospettiva di famiglie nuove. Nel lavoro, per raccogliere le sfide della precarietà presente tentando strade nuove, anche se impervie e dallo sbocco incerto. Nell’impegno sociale e politico, custodendo magari l’adolescenziale tensione al "bene comune" senza cedere alle tentazioni di maldestre deviazioni rispetto alle quali si è già maturata qualche dose di sana indignazione. Allora anche un’esperienza all’estero potrà essere utile e formativa, spesso già lo è, anche per aprire gli occhi, rinunciare all’illusione dell’Eden oltre confine, fortificarsi nelle conoscenze e nel carattere. E ritornare a guardare la propria vita, sì, anche in Italia, come una fortuna. Da rimettere in gioco.
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