sabato 23 luglio 2022
Lunedi 25 i cittadini sono chiamati a decidere per una riforma della Costituzione che punta ad accentrare i poteri, a una maggiore islamizzazione e a rafforzare il presidenzialismo.
Tunisi, una protesta della società civile contro il referendum sulla Costituzione indetto dal presidente Kais Said

Tunisi, una protesta della società civile contro il referendum sulla Costituzione indetto dal presidente Kais Said - Reuters

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Con il referendum del 25 luglio, il presidente della Repubblica tunisina Kaïs Saïd si prefigge di rafforzare i poteri del capo dello Stato, instaurando una forma di presidenzialismo senza briglie. Di fatto, si tratta di cristallizzare lo scenario instaurato da Saïd stesso un anno fa, ma senza quel consenso trasversale di cui il presidente-giurista godeva allora. Uomo solo al potere da dodici mesi – e non per 30 giorni, come inizialmente annunciato facendo appello all’articolo 80 della Carta, quello attivabile in caso di “estremo pericolo” per la nazione – l’ex professore di diritto costituzionale è riuscito a scontentare tutti, pur dichiarando obiettivi di segno opposto: combattere corruzione e nepotismo, compattare il Paese, innescare la ripresa economica.

I tunisini sono chiamati a votare modifiche sostanziali al testo, entrato in vigore nel gennaio del 2014, al termine di un lungo lavoro di limatura in seno all’Assemblea costituente. Uno sforzo condiviso da tutto l’arco politico tunisino, in primis dal partito di maggioranza Ennahda (islamista), affinché la Legge fondamentale fosse di tutti e il rischio guerra civile allontanato. In quella Carta, Parlamento e Presidenza della Repubblica sono complementari, in grado di bilanciarsi a vicenda. Il peso dell’islam è circoscritto. Cittadini e cittadine hanno pari dignità. Ma proprio i meccanismi pensati per scongiurare il ritorno di una dittatura come quella di Zine el-Abidine Ben Ali hanno contribuito a paralizzare l’azione governativa: questo sostengono i detrattori di quella Costituzione e, a cascata, di tutte le forze politiche che hanno guidato la Tunisia dopo la rivoluzione del 2011.

Il 30 giugno, sulla Gazzetta ufficiale tunisina è stato pubblicato il nuovo testo: 142 articoli distribuiti in 10 capitoli, rimaneggiati in appena un mese da una Commissione a nomina presidenziale. Una compagine di esperti il cui leader, Sadok Belaïd, ha rinnegato il proprio operato, denunciando alla stampa che la bozza diffusa non corrisponde a quella preparata in Commissione. «Conosco personalmente Saïd, è stato il mio professore di diritto costituzionale all’università, un buon docente, ma con un suo approccio tutto particolare», spiega Omar Fassatoui, ricercatore associato presso Mesopolhis, Centro mediterraneo di Sociologia, Scienze politiche e Storia dell’Università Aix-Marsiglia. Politologo ed esperto di diritti umani, Fassatoui precisa: «Un conservatore in mezzo a colleghi modernisti, con una visione diversa dagli altri, tradizionalista, di cui non ha mai fatto mistero neanche in campagna elettorale».

Un anno fa Fassatoui, come numerosi intellettuali tunisini interpellati all’indomani della sospensione dei lavori parlamentari da parte del presidente, ne salutava la decisione con favore: uomini e donne di schieramenti differenti, convinti che uno "scossone" al sistema, paralizzato da rissosità e incompetenza, fosse indispensabile: «Adesso non più, ho dei miei timori personali. Il problema non è tanto Saïd, ho una certa fiducia nella sua capacità di autocontrollo, ma il progetto di ‘super presidente’ che ha in mente e il rapporto Stato-religione, non chiaro». Nella rinnovata Legge fondamentale, l’islam non è più “religione di Stato”. Specchio dunque di una presidenza laica? Niente di più sbagliato: la Tunisia – viene esplicato nell’articolo 5 – fa parte della Umma, la nazione islamica, e pertanto gli apparati dello Stato dovranno «perseguire gli obiettivi della comunità dei fedeli musulmani ».

Un concetto dai confini labili, strumentalizzabile: «Oggi la Tunisia è l’unico Paese arabo in cui è possibile adottare un bambino. Negli altri esiste la kafala, cioè una forma di affido che però vieta agli affidatari di dare il proprio cognome al bimbo», in nome della shari’a. Il minore rimane così un figlio illegittimo, esposto alle discriminazioni sociali. In virtù della nuova Costituzione, in futuro il diritto all’adozione potrebbe essere contestato. Il ruolo del presidente è l’altro pilastro della riforma: godrà di totale immunità ed eserciterà il potere esecutivo, insieme a un primo ministro da lui stesso nominato. E licenziabile senza il coinvolgimento del Parlamento. Fra le prerogative del capo di Stato anche la nomina di figure apicali dell’esercito. Intanto, da mono camerale il sistema parlamentare diventerà bicamerale, con la nascita di un Consiglio delle regioni.

Una manifestante tunisina mostra il cartello 'No all'autocrazia' per protestare contro le modifiche della Costituzione che rafforzerebbero i poteri del presidente Said

Una manifestante tunisina mostra il cartello "No all'autocrazia" per protestare contro le modifiche della Costituzione che rafforzerebbero i poteri del presidente Said - Ansa

Garantito il diritto di sciopero, ma non per militari, polizia e magistratura, che proprio in queste settimane sta protestando a oltranza contro il rischio autoritarismo. Contro la bozza si sono espressi ong, associazioni, sindacati di categoria, minoranze religiose e, va da sé, tutti i partiti, messi sotto accusa dal raìs anti-sistema. L’invito al boicottaggio della consultazione è trasversale. «Mi aspettavo un testo che avrebbe cambiato tutto, rassicurato la popolazione. Io non capisco perché mettersi contro tutta la società civile e non ascoltare nessun parere », chiosa il politologo tunisino. Risponde indirettamente Giuseppe Dentice, direttore di ricerca area Mena del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.): «La vita reale, in termini socio-economici, fa paura al presidente», che non ha dato nessuno slancio alla ripresa e ne è consapevole. Disoccupazione, crollo del valore del dinaro, fuga degli investimenti esteri sono fenomeni ancora più drammatici di un anno fa.

Temendo di essere scalzato, insomma, Saïd punterebbe a "blindare" il proprio mandato. «C’è molta confusione», evidenzia l’analista, ricordando che la guerra in Ucraina ha messo in ginocchio Paesi «cronicamente deboli come la Tunisia». Nazioni dipendenti dai prestiti del Fondo monetario internazionale e dai finanziamenti dei sultanati del Golfo. Una parte dell’opinione pubblica, delusa dai partiti tradizionali, potrebbe andare a votare concedendo al presidente un ulteriore credito. Ma se anche così non fosse, il risultato è scontato: il referendum non prevede quorum. «La Tunisia ha un vortice autoritario di fronte a sé – avverte Dentice –. Nessun Paese nordafricano uscirà immune da questa svolta e gli effetti si faranno sentire anche in Europa». Tutti gli scenari post-referendum sono aperti. In molti si chiedono quale opzione sceglierebbe Ennahda, costola politica della Fratellanza musulmana tunisina, se alla messa sotto accusa della sua dirigenza per riciclaggio di denaro sporco e terrorismo seguisse una vera e propria persecuzione del movimento: «Escluderei la violenza – argomenta il politologo Fassatoui – perché gli islamisti sanno di essere osservati speciali». Quanto alla società civile, all’attivismo, «c’è molto fermento, ci sono state petizioni e iniziative dal basso per il ritorno alla via democratica, ma c’è anche grande stanchezza».

Sono giorni cruciali per il futuro della piccola Repubblica tunisina: manifestazioni anti-referendum, ma di matrice politica diversa, sono annunciate nei diversi centri urbani del Paese. Sono 42 le associazioni, iscritte alla Coalizione civile per libertà, dignità, giustizia sociale e uguaglianza, che hanno protestato davanti al Teatro comunale di Tunisi ieri sera. Il Fronte di salvezza nazionale, a traino islamista, ha ricevuto l’autorizzazione del governatore di Tunisi a marciare nel centro della capitale. Non così per i simpatizzanti dell’avvocata Abir Moussi, erede del Rassemblement di Ben Ali, guardati a vista. Lunedì, nell’indifferenza delle cancellerie internazionali, Tunisi potrebbe allontanarsi ancora un po’ dal suo sentiero democratico e l’Unione europea perdere un interlocutore prezioso, colpevolmente lasciato andare alla deriva.


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