Rifiuti, via dalla (in)cultura del blob da far scomparire
sabato 4 giugno 2022

Caro direttore,
la realizzazione di un inceneritore da 600.000 t/anno per risolvere l’annoso problema dei rifiuti romani, in assenza di una analisi tecnica della sua reale efficacia e di un confronto con le possibili alternative, appare sempre più una scelta ideologica. Non c’è traccia a oggi di un ragionamento complessivo che chiarisca se rappresenti una opportunità o un danno. Per fare un po’ di chiarezza che vada oltre polemiche e pregiudizi, propongo una breve analisi di contesto.

Negli anni 50 del Novecento, quando i rifiuti della città erano affidati al servizio comunale di Nettezza Urbana un operatore bussava alla porta di casa e ritirava un sacco di iuta pieno di rifiuti, lo gettava in un camion a cassone aperto e riportava su per le scale i sacchi vuoti. In quegli anni, praticamente la plastica non esisteva, il vetro seguiva il sistema del vuoto a rendere e si differenziavano nelle case solo cartone e stracci, raccolti da piccoli operatori. Le quantità prodotte erano particolarmente modeste, pari complessivamente a circa 900 tonnellate al giorno. Negli anni 60, quando il benessere, nelle statistiche ufficiali, cominciava a misurarsi anche in termini di rifiuti prodotti, Roma, fra le prime città al mondo, si dotò di impianti per il trattamento industriale dei rifiuti, estraendo ciò che si poteva da un flusso ancora esclusivamente indifferenziato.

A metà degli anni 70, in una ex cava che aveva fornito argilla per la costruzione del vicino aeroporto di Fiumicino, nasce la discarica di Malagrotta, che negli anni successivi diventerà la più grande d’Europa offrendo uno sbocco semplice e a buon mercato alla quasi totalità dei rifiuti prodotti dalla città di Roma. L’11 gennaio 1985 viene istituita l’Azienda della Nettezza Urbana (Amnu) che nel giu- gno del 1994 assume la nuova denominazione di Azienda Municipale Ambiente (Ama). L’orientamento culturale di quegli anni era considerare i rifiuti come un effetto indesiderato ma inevitabile del progresso, e l’obiettivo di Ama era sostanzialmente di rimuoverli dalle strade e dalle case per portarli lontano dalla vista di chi li aveva prodotti. Il concetto di rifiuto comprendeva qualsiasi cosa di cui un cittadino decideva di disfarsi, a prescindere dalla sua consistenza e dal suo valore, e inglobava tutto in una unica definizione, senza distinzioni, come un 'blob', la massa aliena della filmografia di fantascienza, che ingoiava tutto ciò che incontrava sul suo cammino, aumentando le sue dimensioni.

Per l’Ama Malagrotta era il luogo ideale dove nascondere il grande 'blob' dei rifiuti romani, con operazioni semplici e a basso costo. E così si andò avanti per molti anni. Ma poi il vento cambiò e con esso la normativa. Il 'blob' dei rifiuti indifferenziati era ormai cresciuto a dismisura in ogni parte del mondo, e la sua carica inquinante iniziava a farsi sentire anche a Malagrotta. La normativa europea cambiò e il Decreto Ronchi del 1998 mise le mani in quel 'blob' indistinto identificandone i componenti riciclabili e mettendo la discarica sempre più ai margini. Ancora oggi non si è del tutto compreso che con questa legge si verificò un cambio di paradigma culturale, che 24 anni dopo ha fatto un ulteriore passo definitivo con la Direttiva europea sull’economia circolare. I materiali riebbero la loro dignità di 'risorse' che, in quanto tali, non dovevano essere né distrutte, né nascoste, ma valorizzate. Ciò ricollega i materiali scartati alla loro origine, dalla miniera o dai campi agricoli, attraverso tutte le fasi del loro ciclo di vita, la cui conoscenza è essenziale per definire la loro migliore valorizzazione. La realtà viene svelata in tutta la sua complessità, che impone il passaggio da un pensiero riduzionista a un pensiero sistemico.

Un sistema di gestione dei rifiuti è l’insieme di miniere, fabbriche, materiali, campi agricoli, foreste, impianti, uffici, centri di raccolta, mercati, persone, ecc.; tutti elementi interconnessi in un unico sistema complesso. Banalizzare il problema riducendolo al grande 'blob', che oggi ammonta a circa 5.000 tonnellate al giorno, da far scomparire in un grande buco o in una grande macchina, è solo demagogia e marketing industriale, perché la fisica ci insegna che la materia non può scomparire, ma solo essere trasformata; il tipo di trattamenti che scegliamo influenza tutti gli altri elementi del sistema. Cercare con un’ottica riduzionista la macchina migliore per trattare il rifiuto indifferenziato è come avere lo sguardo fisso su un albero e non accorgersi di trovarsi in una foresta. Una cultura riduzionista aiuta a identificare relazioni di causa-effetto e a scegliere l’operazione più vantaggiosa rispetto a un singolo problema.

Ma un sistema di soluzioni organizzative e tecnologiche differenti alle quali indirizzare in modo variabile i flussi di materia ha due caratteristiche che la soluzione unica non può avere: la resilienza e la capacità di adattamento. Queste due caratteristiche danno al sistema la capacità di influenzare e modificare l’intera catena di oggetti ed eventi a cui i materiali nel loro ciclo di vita sono collegati, incluse le scelte industriali, le politiche commerciali e l’orientamento dei cittadini-consumatori. È un sistema in grado di evolvere e modificare il contesto in cui opera, inclusa la composizione merceologica dei materiali scartati che deve valorizzare. Un sistema vale molto più della somma delle sue singole parti; questo ci insegnano 4 miliardi di anni di evoluzione del nostro pianeta. Purtroppo, questo approccio sistemico, finalmente riconosciuto dalla normativa europea, si scontra con il ritardo culturale di gran parte dei tecnici e dei decisori politici, ancora legati alla cultura del 'blob' da far scomparire.

Ingegnere, direttore scientifico di Greenaccord Onlus

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