Il Daesh è sconfitto, ma non è finito
sabato 27 aprile 2019

La popolazione traumatizzata e spaventata. Le chiese cristiane chiuse per paura di nuovi attentati, le preghiere nelle moschee sospese dopo le minacce di rappresaglia. Gli arresti che si susseguono a decine e i sospetti che si moltiplicano. Il presidente Siresena e il premier Wickeremesinghe ormai ai ferri corti, con il primo a chiedere la rimozione dei ministri che non hanno saputo impedire la strage e il secondo a rimproverare il mancato allarme da parte del Consiglio di sicurezza, che pure era stato avvertito del pericolo. La proclamazione dello stato d’emergenza, che potrebbe persino aprire la strada a una svolta autoritaria nel governo del Paese. Le tensioni etniche e religiose destinate a crescere in un Paese che, per di più, solo dieci anni fa ha chiuso una guerra civile durata quasi venticinque anni.

Dopo la strage di fedeli e di turisti lo Sri Lanka sembra un Paese devastato da uno tsunami sociale e politico. Ed è proprio questa considerazione, oltre naturalmente ai risultati delle indagini, a rendere credibile l’attribuzione degli attentati al terrorismo di matrice islamista. Se guardiamo al recente passato, infatti, non possiamo non notare che sia al-Qaeda sia il Daesh-Isis (che di al-Qaeda è pur sempre un figlio legittimo) hanno sempre mostrato due comuni caratteristiche.

La prima è l’inclinazione ad aprire fronti nuovi appena quelli abituali mostravano segnali di crisi. Messa alle strette dalla spedizione occidentale in Afghanistan dopo il colpo delle Torri Gemelle nel 2001, al-Qaeda inaugurò nuove filiali del terrore in Algeria e nell’Africa del Nord. Incalzata anche lì, fece pian piano scivolare i gruppi a lei affiliati verso il Sahel e l’Africa sub-sahariana. La stessa cosa ha fatto il Daesh che, dai campi di battaglia della Siria e dell’Iraq, si è spostato nell’Africa del Nord verso la Tunisia, il Sinai egiziano, la Libia.

La seconda caratteristica dei maggiori movimenti del terrorismo di matrice islamista sta nell’intelligenza strategica con cui quei "secondi fronti" venivano e vengono individuati. L’Algeria del complicato equilibrio tra l’autocrate Bouteflika e i suoi generali, con il ricordo ancora fresco della guerra civile degli anni Novanta, dopo la vittoria regolare del Fronte islamico di salvezza nelle elezioni del 1991, il colpo di Stato militare del 1992, le sanguinose repressioni dell’esercito e la nascita del Fronte islamico armato. Il Ciad e il Niger della rivolta autonomista dei tuareg.

La Nigeria delle grandi ricchezze petrolifere e della crescente divisione tra cristiani e musulmani. Più di recente, il Sinai della perenne inquietudine beduina nell’Egitto sconvolto dalla Primavera araba, la Tunisia diventata modello della transizione pacifica da un Governo islamista a uno "laico", la Libia frantumata del post-Gheddafi. Adesso, dopo l’estinzione del Califfato tra Siria e Iraq, lo Sri Lanka della recente guerra civile, della società composita dal punto di vista etnico e religioso, dei vertici litigiosi e divisi, tra l’altro anche sul ruolo economicamente e politicamente invasivo della Cina.

Una condotta, come si vede, replicata con tragica puntualità. Questo ci dice che, a quasi vent’anni dall’inizio della "guerra al terrorismo" (era il 20 settembre del 2001 quando George Bush junior annunciava al Congresso la «war on terror»), non siamo ancora riusciti a colpire davvero la testa dell’idra terroristica. L’abbiamo sconfitta, e nemmeno sempre, quando ci ha sfidati in campo aperto (in Afghanistan, Iraq, Siria, se vogliamo anche in Libia), ma la sua capacità strategica è intatta. E lo è anche quella organizzativa. Di nuovo, sono gli attentati nello Sri Lanka a dimostrarlo.

Trasformare un piccolo gruppo estremista locale in una macchina di morte con decine di kamikaze disposti a immolarsi e terroristi pronti a seminare ordigni nei luoghi più diversi, richiede notevole capacità militare e grande disponibilità di mezzi. Il nocciolo squisitamente terroristico dell’islamismo radicale, insomma, è ancora quasi intatto. E continuerà a esserlo finché non andremo a toccare i suoi santuari finanziari che, come ormai sappiamo con certezza, stanno in precise petromonarchie del Golfo Persico. Riusciremo un giorno a parlare anche di questo con Paesi con cui non abbiamo alcun problema a parlare d’affari.

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