martedì 15 giugno 2010
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Che cosa potrà fare la Fiom-Cgil se la Fiat decidesse davvero di non investire più a Pomigliano d’Arco: sventolerà il contratto nazionale di fronte agli operai in mobilità, paga d’aver salvato uno storico vessillo, a costo del sacrificio di 5mila posti di lavoro diretti e 10mila d’indotto? O è convinta di avere la ragione e la forza necessarie per poter vincere? E come pensa di poter difendere i lavoratori un’organizzazione che rifiuta sistematicamente qualsiasi innovazione, non firma gli accordi (compreso l’ultimo rinnovo di quel contratto nazionale che ora difende)? Le domande si affollano in attesa di capire quale sarà oggi l’atteggiamento della Fiat di fronte all’ennesimo «no» dei metalmeccanici Cgil, se esistono ancora margini di trattativa, se il gruppo automobilistico deciderà di far affidamento sulla responsabilità di Fim-Cisl, Uilm, Fismic e Ugl e dar corso comunque all’investimento da 700 milioni di euro.In realtà, in molte altre aziende, specie nei periodi di crisi, i sindacati hanno firmato accordi con piccole e grandi deroghe al contratto nazionale. Ma la portata di questo passaggio, per la sua valenza simbolica e le grandezze coinvolte segnerà di fatto un punto di non ritorno. La posizione di chi – come la Fiom – difende strenuamente funzioni e prerogative del contratto nazionale è legittima e comprensibile, perché i rischi di un indebolimento delle tutele dei lavoratori nell’immediato possono apparire reali. Ma non sembra fare i conti né con il mutare del quadro economico né con il diverso ruolo che il sindacato può – anzi deve – giocare in uno scenario così mutato. In un mondo globalizzato, nel quale le fabbriche sono "portatili" e le produzioni manifatturiere possono essere svolte quasi indifferentemente in Europa, in Sudamerica o in Asia, pensare di essere protetti dai codicilli di un contratto nazionale è illusorio. Se si guarda al rapporto di forza tra impresa e dipendenti in termini di conflitto tradizionale, non c’è (quasi) speranza. Ci sarà sempre un altro Paese nel quale sarà più conveniente produrre, ci saranno sempre persone – all’estero e addirittura nel nostro Paese – disposte a fare il nostro stesso lavoro per meno, anche molto meno. E così o si lotta opponendo una serie di no – col rischio concreto però di perdere a pezzo a pezzo aziende e occupazione – oppure si tenta la sfida, anche culturale, di cambiare completamente prospettiva, di coinvolgersi fino in fondo. L’impresa con una maggiore responsabilità sociale, il sindacato con un modello partecipativo.Il vantaggio competitivo che oggi può essere ancora sfruttato dai lavoratori italiani è il "saper fare", la qualità di alcune nostre lavorazioni . Ma più ancora il "farlo insieme". Non c’è contratto nazionale né legge ordinaria e neppure Statuto dei lavoratori che possa assicurare la garanzia del posto e un livello salariale dignitoso, con la stessa efficacia di un rapporto collaborativo azienda-lavoratori. Attraverso una contrattazione locale, flessibile e continua, tagliata "su misura". Una contrattazione aziendale capace di rispondere in tempo reale alle mutate esigenze dell’impresa, in grado di tutelare i lavoratori rendendoli protagonisti del processo produttivo e non passive comparse. È solo la corresponsabilità imprenditoriale dei lavoratori e dei loro rappresentanti che può garantire un futuro al nostro tessuto industriale e quindi agli stessi operai.Anche quest’ultima vertenza lo dimostra. Lo spazio per salvare e rilanciare Pomigliano sta tutto lì, nella capacità di affrontare insieme, in maniera condivisa attraverso commissioni paritetiche e altri strumenti partecipativi, i problemi (reali) posti dall’azienda. Senza rigidità eccessive e blocchi ideologici da ambo le parti.Lo abbiamo già scritto e lo ribadiamo: per il Sud e per il Paese non c’è alternativa accettabile all’accordo. Il resto è masochismo.
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