venerdì 20 marzo 2015
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​Il nostro Paese sta attraversando un’emergenza occupazionale che investe con particolare rilevanza alcune categorie sociali: i cosiddetti ageing workers (i lavoratori anziani), che si ritrovano costretti da una impegnativa dinamica di cambiamento, in una fase di vita in cui, spesso, risorse ed energie diminuiscono, ma anche e soprattutto i giovani. Il mutamento delle dinamiche del lavoro – tra globalizzazione e dematerializzazione, nonché nella forbice crescente tra lavori ad alto e a basso valore aggiunto – investe l’intero pianeta, ma nel Vecchio Continente, Italia compresa, sta producendo un impatto del tutto particolare, contribuendo a diffondere tra giovani e meno giovani una percezione di incertezza e precarietà. Che porta con sé il rischio concreto di un incremento dei conflitti tra categorie e generazioni.Un esito drammatico di tale conflittualità è la perdita di speranza, che appunto si coglie particolarmente bene tra le pieghe dello sfaccettato fenomeno della disoccupazione giovanile. L’enorme numero dei Neet (Not in education, employment, training, quelli che non studiano, non lavorano e a nulla si preparano), che si stimi superi abbondantemente i 2 milioni di giovani, ne è un esempio eclatante.Questa crisi di-speranza non è certamente il tratto di ogni ragazzo. Ovunque, anche nel nostro stanco Paese, abbiamo davanti gli occhi numerosi esempi di un positivo muoversi nella realtà di questo mondo che cambia. Ciò che desta preoccupazione è piuttosto che si vada verso una sorta di polarizzazione dell’universo giovanile, tra desideranti e non-desideranti. Recentemente una collega, che lavora proprio sulla capacità di trovare un lavoro adeguato a sé e di mantenerlo, svolgendo un intervento in un liceo milanese mi diceva: «È incredibile, si capisce subito chi ce la farà in questo nuovo mondo e chi non ce la farà». Senza voler essere deterministi, resta una palpabile preoccupazione.Rispetto all’augurio reso celebre da Steve Jobs, «Stay hungry, stay foolish» (letteralmente, "siate affamati, siate folli", cioè fuori dagli schemi) ci pare che troppi dei nostri ragazzi non manifestino più, nell’approcciarsi al lavoro, né il bisogno che origina dall’avere fame, né la "follia" desiderante (la follia del Caligola di Camus, sintetizzata nello slogan "siate realisti, chiedete l’impossibile"). Ma non c’è azione che non discenda da un bisogno e da un desiderio. Allora si attende un intervento esterno che cambierà le carte in tavola (magari un Jobs Act, che pure speriamo funzioni), ma spesso in questa attesa ciò che pare mancare è proprio l’io.Cosa possiamo proporre per rimettere in moto l’io di questi ragazzi? Certamente si sente la necessità di una riforma, che riporti a galla risorse e offra un contesto più favorevole all’occupazione, crediamo però che questo non sia l’unico punto. Papa Francesco ci invita a investire sul buon desiderio: «Il desiderio (…) è la presenza di un bene positivo e sempre si accresce, si struttura e mette in moto verso un di più», scriveva l’allora cardinal Bergoglio nel libro "La bellezza educherà il mondo".In questo processo di ri-attivazione del desiderio, il ruolo dell’adulto è fondamentale: nell’essere maestro, non con un’aridità moralistica, ma attraverso lo strumento della testimonianza. Testimoniando innanzitutto il gusto di una responsabilità nel lavoro, che non è primariamente dovere, né colpa, ma positivo protagonismo nella realtà.La testimonianza permette di far prevalere non uno schema da applicare – il nostro è uno schema di vita, di società, di lavoro, per molti versi inesorabilmente trascorso – ma il criterio di un giudizio che, liberamente espresso,  potrà guidarci nelle nuove circostanze.Questa è la prospettiva che può consentire a noi e ai nostri giovani di tenere vivo il fuoco di un desiderio di costruire, piuttosto che adorare le ceneri del passato.
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