Responsabili del cambiamento se sapremo tornare protagonisti
mercoledì 31 agosto 2022

Siamo chiamati a votare, scegliendo partiti e persone. Dovremmo farlo non solo individuando candidati capaci di rappresentare le nostre istanze, ma preferendo ciò che essi sono, che hanno fatto e che si propongono di fare. I politici, come ricorda spesso Sabino Cassese, in Parlamento portano 'in primis' le loro capacità, competenze e motivazioni: il nostro voto serve per tradurre questo potenziale in azione politica.

Questo ovviamente non significa sposare la logica del leaderismo, ma rilanciare e ancorare la nostra responsabilità non solo verso un programma ma anche verso umanità e competenze che dovranno poi realizzarlo, trasformando l’esistente con decisioni radicali e coraggiose. Decidere (etimologicamente 'tagliare') implica l’uso di un criterio, un giudizio di valore che non si limiti a definire cosa è utile, ma si spinga fino a rischiare un’idea di Bene.

Possiamo infatti fare scelte sulla base di un criterio di Bene totale o di Bene comune. La differenza non è di poco conto, e quando si parla di politica assume una rilevanza enorme. Il Bene totale infatti è la mera 'somma' di beni individuali, il Bene comune è invece il 'prodotto' degli stessi; un passaggio sostanziale, poiché quella del Bene comune è una logica che non ammette sostituibilità, non si può cioè sacrificare il bene di qualcuno per migliorare il bene di qualcun altro, e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno ha un valore unico e irripetibile.

Una prospettiva, questa, che pone al centro del dibattito il 'come' si vogliono realizzare i programmi (cosa di cui non si parla mai) e il necessario passaggio dal 'fare per' al 'fare con'. La radicalità infatti non si persegue in solitaria, alimentando dicotomie (noi e loro, le istituzioni e i cittadini) ma attraverso un metodo cooperativo che, assumendo la complessità e l’interdipendenza come fattori strutturali, mette in campo alleanze di scopo intorno a sfide epocali come quelle ambientali, educative, lavorative e sociali.

Un lavoro dignitoso e giusto, un welfare generativo e uno sviluppo integrale richiedono azioni corali e non 'ego-sistemi' che alimentano inevitabilmente rendite e auto-conservazione. Un debito pubblico pari a 2.760 miliardi, un ciclo economico potenzialmente recessivo, la fine degli acquisti dei titoli pubblici della Bce, le condizionalità connesse al Pnrr e allo scudo anti-spread sono vincoli oggettivi sull’uso delle risorse, ma leggendo i programmi elettorali sembrano essere scomparsi dai radar delle segreterie di molti partiti.

Un segno evidente della fatica della Politica a ripartire dalla realtà e della cattiva abitudine di rendere i programmi elettorali un 'bene di comfort' per i diversi 'target' elettorali, e non un 'bene di stimolo' capace di responsabilizzare, attivare e valorizzare ciò che già esiste. Cieca è la politica che non parte da ciò che c’è ed enfatizza solo ciò che manca. Semplificare, attivare, trasformare sono azioni di lungo periodo che possono essere messe a terra solo da un 'investimento' della società tutta e non appena dalle ricette di pochi illuminati.

L’offerta politica di qualità è quella che valorizza la domanda, così come il welfare di qualità è quello che include il beneficiario, l’educazione di qualità è quella che si misura con la libertà dello studente, la prosperità economica è quella che si nutre della biodiversità dei suoi attori. Passare dalla diagnosi alla terapia implica un diverso rapporto con la società, non solo 'oggetto' dell’azione politica ma 'soggetto' che la legittima diventando parte del cambiamento. Dopo questi 2 anni di pandemia avremmo dovuto firmare tutti una 'dichiarazione di interdipendenza' certificando così, sulla base dell’esperienza vissuta, il 'valore di legame' che tiene insieme e innova una società. Le decisioni radicali che ci attendono non devono mai sacrificare i legami ma devono metterli al centro delle trasformazioni per renderle più sostenibili e umane. Ciò che farà avanzare questo Paese, come la storia ci insegna, sarà chi saprà attivare fiducia, desiderio e intraprendenza.

La debolezza di molti programmi elettorali su sussidiarietà, cultura, innovazione e crisi demografica è per certi versi allarmante. Dare potere alle aspirazioni delle nuove generazioni e della società civile non è una concessione che ci si attende dalla politica ma l’unica strada percorribile per un reale progresso. Per non cadere in questo errore di prospettiva e di metodo sono necessari un contributo attivo e una correzione ( cum-rigere, ossia reggere insieme) da parte della società civile.

Ecco perché è nato l’«Appello della società civile» lanciato su queste pagine il 2 agosto e che verrà presentato pubblicamente a Roma il 6 settembre. Un contributo che vuole 'ribaltare' le tradizionali dinamiche elettorali: non più solo un’offerta di programmi che la società civile valuta, ma proposte concrete che provengono dal basso e che chiedono ai politici un giudizio ora e un impegno concreto domani. Lo spazio politico infatti non coincide con lo spazio partitico, non possiamo rinunciare alla responsabilità personale poiché l’inizio del cambiamento coincide con la presa di coscienza che la persona debba essere protagonista della realtà. Non sprechiamo questa occasione per costruire l’inizio del dopo.

Direttore di Aiccon Università di Bologna

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