mercoledì 16 settembre 2009
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Ieri un buon numero di case è stato consegnato agli aquilani dal capo del governo. È un gesto che ha una forte va­lenza simbolica, al di là del fatto che il grosso del lavoro di «rialloggio» – per u­sare un termine volutamente sostitutivo della temuta «riallocazione» – di un’in­tera città, nell’ambito di abitazioni prov­visorie, vada ancora fatto col tempo (an­ni) che richiederà, come tutte le perso­ne di buon senso sanno. Un terremoto come quello del 6 aprile che ha colpito un’intera città, di quasi ottantamila abi­tanti, non si verificava da un secolo in I­talia, trovando un remoto e incompara­bilmente più grave precedente solo in quello di Messina e Reggio Calabria del 1908. E «riabitare» è importante dal pun­to di vista psicologico perché fa sentire all’Aquila una vicinanza dell’Italia e del mondo. Una vicinanza esaltata dalla estraneità di coloro che sono corsi ad aiutare l’A­bruzzo, come si è visto, nel mese scorso, alla consegna delle primissime casette, realizzate a tempo di record da parte de­gli operatori del Trentino, a qualche chi­lometro dall’Aquila, dove i terremotati sono entrati senza riuscire a trattenere le lacrime. Loro, impietriti ai funerali, cin­que mesi fa, davanti alla fila senza fine di bare dei loro familiari nella spianata di Piazza d’Armi, in una commozione in­capace di lacrime e avvolta in un’invin­cibile riservatezza tutta abruzzese, tutta siloniana, capace di spaccarsi in due pri­ma di scomporsi all’emozione, che ha stupito il mondo e strappato lacrime a Michelle Obama, nel G8. Ecco l’Abruzzo, per chi non lo conosca. Per noi abruzzesi, che ci viviamo, che ab­biamo visto la nostra terra ferita e ne ab­biamo gridato la bellezza con lo stesso appassionato pudore di cui Cristo ci ha insegnato ad avvolgere l’umiliata rega­lità della persona umana, non c’è alcu­na sorpresa nella compostezza di que­sto dolore. Solo non avremmo voluto che fosse conosciuto così. Eppure, se conosciamo il cuore della no­stra gente, non siamo sicuri che qualche lacrima, dando le spalle alle telecamere, non sia scappata, ieri, alla consegna del­le prime case. Perché riavere una casa non significa solo riavere una casa. Si­gnifica molto di più. Ripartire. Ricomin­ciare a vivere. Celebrare la prima vittoria, quella del restare. Circondando la città in un abbraccio che sia come un incorag­giamento a risorgere, quando a Natale il centro dell’Aquila sarà spento di lumi­narie e il freddo della montagna sem­brerà ancora più freddo col buio; quan­do la primavera tornerà a imbiancare i mandorli, inconsapevoli della scossa che non li ha sradicati, come un presagio di rifioritura; quando la prossima estate non sarà più, come si spera, un’estate nelle tende. Questo sarà importante fare, dalle case che vengono su tutt’intorno all’Aquila: starle intorno, guardarla, amarla. Strin­gerla, ripenetrarla, farla rivivere. Piano piano. Col tempo che ci vorrà. Nel 1703, dopo il disastroso terremoto del 2 febbraio che provocò migliaia di morti, il Vicario de’ Regolari inviato dal suo Ordine nella città stilò una relazio­ne, scrivendo che una cosa, più d’ogni altra, lo aveva colpito: la tenacia degli a­quilani nel voler rimanere lì, accanto al­le loro rovine, anche in baracche di for­tuna, «resistendo al freddo, al caldo e ad ogni disagio; in nessun modo – scrisse – li si potrà costringere a dissabitare». Il verbo è oggi desueto e suona strano, il senso è chiarissimo e struggente. In nes­sun modo, anche a costo di vivere per anni e anni nei « rialloggi » intorno alla città, gli aquilani…' dissabiteranno', neppure nel 2009. Resteranno lì, come le rocce dei monti, a guardare la piana del­la loro città, progressivamente restaura­ta, riaperta e infine restituita loro. Sarà u­na dura sfida. I vecchi sanno che molti di loro, come Mosè, vedranno da lontano la città promessa, senza rientrarci. Ma non importa, potranno guardarla ogni gior­no. Cioè potranno - appunto - resiste­re, che ha la stessa radice di restare.
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