venerdì 17 dicembre 2010
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Un tempo c’erano le «convergenze parallele», ossimoro coniato per tenere unito il Paese in un momento difficile. Oggi, nella vicenda del piano Fabbrica Italia, sembrano prevalere invece le «rigidità parallele» di Fiom e della Fiat. Col rischio di vanificare un importante investimento produttivo e incidere negativamente sull’evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali.Il confronto sul futuro dello stabilimento di Mirafiori, infatti, si è interrotto bruscamente la scorsa settimana più che sul merito e i contenuti specifici (lo straordinario, la mensa e le pause), su una questione di metodo e di "cornice" nella quale inserire le innovazioni richieste dall’azienda e sulle quali si stava cercando (faticosamente) un’intesa sindacale. L’irrigidimento delle parti, prima i sindacati e poi soprattutto la delegazione aziendale, ha finito per provocare lo stallo. E in progressione un’escalation di prese di posizione che hanno portato a mettere in discussione sia il contratto nazionale dei metalmeccanici sia la stessa permanenza della Fiat nel perimetro della rappresentanza di Confindustria. Tanto da costringere la presidente Emma Marcegaglia a inseguire a New York un (più o meno onorevole) compromesso, con uscita temporanea della Fiat e promessa di reingresso dopo un contratto-ponte solo per il settore auto.Ora, è chiaro che l’obiettivo principale deve rimanere quello di "portare a casa" l’investimento su Mirafiori, con la produzione del Suv in collaborazione con Chrysler, per assicurare il futuro stesso dei lavoratori. E, a questo fine, è necessario che la Cgil prema sulla Fiom affinché assicuri maggiore disponibilità, abbandonando una visione ideologica della contrattazione quale strumento della lotta di classe. Allo stesso tempo, però, occorre che la Fiat eviti le forzature progressive per non compromettere, non solo le proprie relazioni industriali, ma il sistema più in generale. Il "come" si realizza l’intesa e il "dove" la si colloca, infatti, avranno un significato e conseguenze ben oltre il destino – pur importantissimo – dello stabilimento torinese. Perché uscire da Confindustria, creare una newco (nuova azienda) e un nuovo patto di settore, sganciato da quello nazionale dei metalmeccanici, significa anzitutto minare alla base l’evoluzione del sistema contrattuale, avviata con la riforma dello scorso anno. Non senza fatica, infatti, si è costruita una più moderna griglia basata su due livelli, uno nazionale di garanzia generale e un secondo decentrato che assumerà via via sempre maggior peso, permettendo proprio quelle flessibilità e adattabilità specifiche che la Fiat ricerca. Si tratta di un travaso progressivo di competenze e poteri – favorito dalle deroghe già presenti ad esempio nel contratto dei chimici e introdotte la scorsa estate pure in quello (separato) delle tute blu – che rischia di bloccarsi del tutto se ogni segmento produttivo ricerca un proprio livello nazionale tagliato "su misura". Allo stesso tempo, la nuova forzatura sul contratto finirebbe per fare terra bruciata intorno a quei soggetti come Cisl e Uil impegnati a sostituire, nei rapporti tra capitale e lavoro, il conflitto con la partecipazione.La strategia di Marchionne che lega gli investimenti a una maggiore produttività può fungere da volano per il risveglio del sistema industriale italiano. A due condizioni, però. La prima che non cerchi di scegliersi in proprio le controparti: una strategia fallita già negli anni ’50. La seconda, che il manager italo-canadese non tenti un trapianto di modelli d’oltreoceano troppo distanti dalla nostra tradizione di relazioni sindacali. Il rigetto potrebbe costare caro.
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