martedì 9 gennaio 2018
Caro direttore, in questa legislatura abbiamo discusso su come, attraverso forme di redistribuzione del lavoro, si possa aumentare l’occupazione
Redistribuire il lavoro: ora si può (e si deve)
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Caro direttore,
in questa legislatura abbiamo discusso su come, attraverso forme di redistribuzione del lavoro, si possa aumentare l’occupazione. Queste idee non sono diventate leggi poiché è prevalsa l’esigenza di far ripartire l’economia. Si è detto: prima preoccupiamoci di allargare la torta, poi del modo in cui tagliarla. Si è poi aggiunta la volontà di escludere soluzioni inefficaci. Ad esempio, la scelta francese delle 35 ore è stata modificata dopo pochi anni, in quanto ha determinato un aumento del costo orario del lavoro e quindi ridotto la competitività delle imprese. L’Italia non ha sviluppato una politica per redistribuire le ore lavorate. Il part time non è mai decollato, soprattutto per l’assenza di veri vantaggi per le imprese e i lavoratori. Lo straordinario è quasi detassato, con un’imposta sostitutiva secca del 10%. Il risultato è che il numero di ore lavorate mensili pro capite risulta maggiore che in quasi tutti gli altri Paesi europei.

La questione è sempre la stessa: possiamo trovare forme di redistribuzione del lavoro che non penalizzino la competitività, non gravino troppo sui bilanci dello Stato e non riducano le retribuzioni ordinarie di chi oggi già lavora? Ora che è ripartita l’economia si può provare a dare risposte, con tre proposte da approfondire.

1) Oltre le trenta ore settimanali il lavoro costi di più. Si introduca, per tutti i soli nuovi assunti, un supplemento di oneri sulle ore lavorate superiore alle trenta settimanali. Sarà così preferibile per le imprese scegliere contratti per i nuovi assunti con orario limitato, senza impedire assunzioni full time. In forma complementare, l’annunciata intenzione di abbassare strutturalmente il costo del lavoro a tempo indeterminato, cioè gli oneri contributivi, dovrebbe essere prevista per le sole prime trenta ore settimanali.

2) Disincentiviamo il lavoro straordinario adottando il modello tedesco, dove non possono essere superate le otto ore di lavoro al giorno per cinque giorni a settimana. In alcuni casi si può arrivare alle dieci ore al giorno, ma solo se in un arco di sei mesi le ore lavorate medie rimangono sempre otto. L’eventuale lavoro straordinario aggiuntivo a questa media semestrale rimarrebbe consentito, ma con un alto prelievo fiscale. Queste prime due proposte, tra loro legate, avrebbero il pregio di non obbligare ma di favorire l’impiego di un maggior numero di lavoratori, a parità di costo orario del lavoro e con modesti oneri per le imprese, compensabili con riduzioni generalizzate del cuneo fiscale.

3) Nel pubblico impiego non si pone il problema della competizione globale. Si può anzi ritenere che un orario ridotto possa assicurare maggiore produttività. Si propone quindi – a eccezione delle professioni in cui è necessario il tempo pieno e della dirigenza – che le nuove assunzioni qui avvengano con la prospettiva di lavorare, senza possibilità di incremento futuro di orario, per 24 o 30 ore settimanali. Tale proposta potrebbe essere estesa alle imprese fornitrici della pubblica amministrazione, limitatamente alle commesse acquistate. Il part time diventi prassi nel pubblico impiego; il lavoro costi di più oltre le trenta ore settimanali; si disincentivi il lavoro straordinario.

Sono suggestioni che meritano considerazione, specie in queste ore in cui ci si confronta su nuove proposte per i programmi elettorali. Non si tratta solo (ed è moltissimo) di aumentare il numero di lavoratori. C’è anche l’esigenza di rispondere alle attese di un nuovo equilibrio tra tempi di vita e di lavoro e tra impegno nell’economia formale e in quella informale. Un nuovo equilibrio, più a misura d’uomo.

*Senatore del Pd

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